Giornalista iscritto all'Albo Nazionale dal 2012
Attualmente redattore del mensile Mistero
rivista dell'omonima trasmissione televisiva di Italia Uno
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«É evidente che il Dio degli Ebrei non ha conosciuto l’Apulia e la Capitanata, altrimenti non avrebbe dato al suo popolo la Palestina come Terra Promessa». In questa dichiarazione attribuita a Federico II si può forse già intravedere l’attrazione che provava per la terra pugliese e di riflesso il motivo per cui forse decise poi di costruire un monumento simbolo di questa terra: Castel del Monte.
Il complesso si trova nell'altopiano delle Murge occidentali in Puglia, nella frazione omonima del comune di Andria, a 17 km dalla città, sulla sommità di una collina a 540 metri sul livello del mare.
Nel 2014 è stato il trentesimo sito italiano più visitato forse anche grazie al fatto che è stato dichiarato patrimonio dell'umanità dell'UNESCO nel 1996. La prestigiosa assegnazione è stata motivata in funzione del rigore matematico e astronomico delle sue forme e per l'armoniosa unione di sintesi degli elementi culturali riconducibili alle architetture del nord Europa, del mondo islamico e dell'antichità classica, tutti inseriti in un tipico esempio di architettura del medioevo.
Le origini storiche
L'origine dell'edificio si colloca per tradizione alla data del 29 gennaio 1240, quando Federico II Hohenstaufen ordinò a Riccardo da Montefuscolo, giustiziere di Capitanata, che venissero predisposti i materiali e tutto il necessario per la costruzione di un castello presso la chiesa di Santa Maria del Monte (oggi scomparsa). Probabilmente alla morte di Federico II (avvenuta nel 1250) l'edificio non era stato ancora terminato.
Incerta è anche l'attribuzione di chi fu effettivamente il capomastro responsabile della costruzione e della progettazione architettonica: alcuni riconducono l'opera a Riccardo da Lentini ma molti sostengono che a ideare la costruzione fosse stato lo stesso Federico II. Pare, inoltre, che sia stato costruito sulle rovine di una precedente fortezza di epoca longobarda.
Certamente, però, come si può notare già a una prima occhiata, non è una fortezza con le caratteristiche tipiche: non presenta infatti mura merlate difensive, non c’è traccia della struttura portante del ponte levatoio, né sono presenti scuderie o ambienti riconducibili alle funzioni prettamente militari. Allora quale era la sua funzione preminente?
La struttura esoterica
Visitando l'edificio il primo elemento visibile che salta subito agli occhi è la pianta ottagonale. Inoltre in ogni spigolo della costruzione si innestano otto torrette a loro volta ottagonali; anche la corte interna ha la forma dell’ottagono.
Il portale di ingresso principale si apre sulla parete della struttura ottagonale orientata approssimativamente a est, vale a dire di fronte al punto in cui sorge il sole in coincidenza degli equinozi di primavera e d'autunno.
In alcuni resoconti storici sono riportate indicazioni circa l'esistenza di una vasca o una fontana al centro del cortile, presumibilmente anch'essa ottagonale e costituita da un unico blocco di marmo.
Le alte pareti da cui è formato il cortile interno danno l'idea di trovarsi all'interno di un pozzo che nella simbologia medioevale rappresentava la conoscenza poiché metaforicamente ci si abbevera estraendo l’acqua così come si dovrebbe dissetarsi di conoscenze.
La presenza di questi elementi simbolici farebbe ipotizzare che la costruzione potesse essere una sorta di tempio sapienziale in cui dedicarsi indisturbati allo studio delle scienze. In ogni caso si rivela un'opera architettonica grandiosa, sintesi di raffinate conoscenze matematiche, geometriche e astronomiche.
Alcune lievi asimmetrie nella disposizione delle residue decorazioni e delle porte interne, nella maggior parte dei casi oggetto di spoliazioni o alterazioni, hanno suggerito ad alcuni studiosi l'idea che il castello e le sue sale, geometricamente perfette, fossero state progettate per essere fruite attraverso una sorta di percorso obbligato, probabilmente legato a criteri astronomici.
L'ottagono irregolare su cui è basata la pianta del complesso è una forma geometrica simbolica: si tratta della figura intermedia tra il quadrato che è il simbolo della terra e il cerchio che rappresenta invece l'infinità del cielo; quindi segnerebbe il punto di sintesi e d’incontro simbolico tra queste due dimensioni, ossia quelle fisiche e geometriche con quelle spirituali.
La valenza simbolica del numero otto è riconducibile anche al concetto di infinito proprio perché lo stesso numero se capovolto indica tale simbolo grafico. Il numero otto è simbolicamente anche legato al concetto del rinnovamento spirituale e della rinascita.
Il numero otto ricorre in vari elementi della costruzione: la forma ottagonale della costruzione, il cortile interno e le otto torri ai vertici, le otto stanze interne, la vasca interna che doveva essere ottagonale, otto fiori quadrifogli sulla cornice sinistra sul portale di ingresso, altri otto sulla cornice inferiore, otto foglie sui capitelli delle colonne nelle stanze, otto foglie sulla chiave di volta, otto foglie di vite sulla chiave di volta della prima sala del piano terra, otto foglie di girasole sulla chiave di volta di un'altra sala, otto foglie ed otto petali su quella della quinta sala, otto foglie di acanto sulla chiave di volta dell'ottava sala e otto foglie di fico sulla chiave di volta dell'ottava sala al piano superiore.
Il numero otto era una vera fissazione del sovrano. Nel 1784 la cattedrale di Palermo nella quale era stato sepolto ha subito dei restauri e la salma è stata trovata in ottimo stato di conservazione; al dito pare sia stato trovato uno strano anello composto da uno smeraldo rotondo con otto petali dorati.
La scelta dell'ottagono come elemento guida dell’intera costruzione potrebbe derivare, secondo alcuni, dalla Cupola della Roccia di Gerusalemme che Federico II avrebbe visto durante la sesta crociata o forse a una emulazione dalla Cappella Palatina di Aquisgrana.
Secondo altri, invece, il maniero sembrerebbe essere stato interamente costruito secondo l'architettura del Tempio di Salomone (con le quattro misure-chiave: 60 - 30 - 20 - 12 cubiti). Il suo perimetro sarebbe 111 cubiti, altro numero carico di significato esoterico e mistico secondo la tradizione ebraica. Le misure della struttura farebbero riferimento in toto alla cosiddetta proporzione aurea (1,618), la stessa presente anche nel Tempio di Salomone di Gerusalemme e in alcune costruzioni del mondo antico come, per esempio, le piramidi di Giza.
L'intera costruzione sarebbe intrisa di forti simboli astrologici e la sua posizione sarebbe stata studiata in modo che nei giorni di solstizio ed equinozio le ombre gettate dalle pareti abbiano una particolare direzione. A mezzogiorno dell'equinozio di autunno, ad esempio, le ombre delle mura raggiungerebbero perfettamente la lunghezza del cortile interno ed esattamente un mese dopo coprono anche l'intera lunghezza delle stanze. Due volte l'anno (l'8 aprile e l'8 ottobre ossia ancora due date riconducibili al numero 8), inoltre, un raggio di sole entrerebbe nella parete sudorientale e attraversando la finestra che si rivolge al cortile interno illuminerebbe una porzione di muro dove prima era scolpito un bassorilievo. Perché era così importante questo bassorilievo?
Un mistero nel mistero
Oltre al mistero e al fascino indiscusso della struttura, oltre alla ricorrenza frenetica del numero otto, Castel del Monte nasconde anche un altro segreto spesso poco citato ma allo stesso tempo molto intrigante.
Ancora una volta anche in questa vicenda sullo sfondo ci potrebbe essere l’epopea dei Cavalieri Templari e il loro bagaglio di mistero e conoscenze esoteriche. Secondo Jacques de Molay, ultimo Gran Maestro, i Cavalieri del Tempio erano a conoscenza di un “terribile segreto”, assolutamente non rivelabile, che nessuno conosceva “tranne Dio, il diavolo e i Maestri”. Di questo sarebbe venuto a conoscenza anche Federico II che lo avrebbe celato in un’enigmatica incisione su una statua attorniata da cavalieri (oggi purtroppo non più visibile) e ancora non decifrata. Era questo il bassorilievo illuminato dal raggio di sole, come abbiamo visto, in alcune date particolari?
L’iscrizione era la seguente: D8 I D CA D BLO C L P S H A2. Ovviamente la prima cosa che viene da pensare è che la misteriosa iscrizione sia collegata a un cifrario e quindi a un metodo di decriptazione che però nessuno è riuscito a individuare.
Il collegamento di Castel del Monte con i Templari è possibile rintracciarlo anche in una chiave di volta di una stanza dove è presente la rappresentazione del Bafometto, ossia la testa mozzata idolo segreto proprio dei Cavalieri Templari.
Un particolare non di poco conto è che proprio Federico II nel 1228, pur essendo stato colpito da scomunica papale, aveva ugualmente partecipato alla Tavola Rotonda a San Giovanni d'Acri insieme ai Templari, agli Ospitalieri, ai Teutonici, ai Fàlas saraceni, ai Batinyah, alla setta degli Assassini e ai Rabiti di Spagna, tutti uniti secondo una vecchia tradizione nella cosiddetta Pactio Secreta (Patto Segreto).
L’enigmatica formula del bassorilievo viene menzionata per la prima volta dal giornalista francese ottocentesco Robert Charroux; essa appariva nella corte su una lapide incastrata nella parete della quinta sala del piano superiore.
Come prima considerazione possiamo dire che la misteriosa scritta sembrerebbe costituita da diversi blocchi separati e presenta due soli numeri e quindici lettere tutte in maiuscolo; in totale, dunque, sarebbero ben diciassette elementi. È solo un caso che diciassette possa essere riconducibile ancora una volta al numero 8 (17= 1+7=8)? É altresì un caso che uno dei due numeri presenti nella serie sia proprio un otto?
Inoltre le parti D8 e A2, rispettivamente all’inizio e alla fine, potrebbero essere due chiavi di lettura per decifrare l’intera iscrizione. Due chiavi di lettura per quale metodo di decriptazione? Al centro, invece, sembrerebbero ci siano vari blocchi alcuni costituite da lettere singole altri invece accoppiate come per esempio CA e BLO; colpisce poi la parte finale, C L P S H, che sembrerebbero lettere singole in successione.
È stato appurato che Federico intrattenne una fitta corrispondenza con il più famoso matematico del medioevo, Leonardo Pisano, conosciuto come Fibonacci (sua è la nota serie nella quale ogni elemento è la somma dei due che lo precedono: 1 2 3 5 e così via.) Tra i due si svolgevano duelli scherzosi a suon di giochi matematici. Tali sciarade potrebbero aver fornito alcuni spunti interessanti per creare la misteriosa scritta? Quale linguaggio segreto si cela dietro la struttura di Castel del Monte? Ma soprattutto quale segreto nasconde l’iscrizione?
Come riportato nel “Nome della Rosa” la cui trasposizione cinematografica è stata ambientata proprio a Castel del Monte: «Lascia parlare il tuo cuore, interroga i volti, non ascoltare le lingue...».
«La magia offre il quadro mitico di forze magiche, di fascinazioni e possessioni, di fatture e di esorcismi e istituzionalizza la figura di operatori magici specializzati. In quanto operazione di riassorbimento del negativo nell’ordine metastorico, la magia è più propriamente rito, potenza del gesto e della parola…». Così si esprimeva l’antropologo e storico delle religioni Ernesto De Martino noto, tra le altre cose, per aver organizzato nel 1952 una vera e propria “spedizione” in Lucania, esattamente come se si trattasse di una terra sperduta con l’intento di raccogliere materiale sulla cultura tradizionale del mondo popolare di questa regione. In particolare il suo obiettivo era ricercare e studiare i riti magici in Lucania.
La Lucania: una terra magica…
La Lucania è una regione particolare: non solo perché ha un doppio nome, infatti è nota ai più come Basilicata, ma anche per la sua conformazione geografica incastonata tra il Mar Tirreno e lo Ionio al centro del sud Italia tra le regioni Campania, Puglia e Calabria.
Il toponimo Lucania deriverebbe forse dall’eroe eponimo Lucus, ma probabilmente potrebbe riferirsi a lýkos (λύκος) che significa lupo o al latino lucus che significa bosco sacro. Più antica invece è la tradizione che rimanda alla radice indoeuropea” leuk- “(ereditata sia dal corrispettivo greco che significa bianco e dal termine latino che significa luce). Già queste considerazioni etimologiche rimandano a una connotazione e a una dimensione magica e mitologica.
Basilicata, invece, è un termine più recente: lo si farebbe risalire all’ultimo periodo della dominazione bizantina in Italia tra XI e XII secolo d. C. e deriverebbe infatti da basilikós (βασιλικός) con il significato di reale o imperiale, a sua volta proveniente dal sostantivo basileús (βασιλεύς). Il basilikós era infatti il funzionario del re che governava su una parte dell’antica Lucania rimasta ancora sotto l’influenza bizantina.
La magia di questa terra però non si riscontra solo nella mitologia delle origini ma è anche nei luoghi. Basti pensare, per esempio tra i tanti, a un posto esotico ma fantastico come la Rocca del Cappello ad Albano di Lucania: si trova di fronte alle Dolomiti lucane e domina il fiume Basento. È un monolito alto più di dieci metri sulla cui sommità è poggiato un masso enorme dalla forma di cappello dal quale prende il nome. Sullo stesso monolito è stata ricavata una panchina chiamata “Seggia del Diavolo”. Si ipotizza che qui si svolgessero antichi culti in onore di Iside, dea egizia portatrice di compassione e speranza. Lungo il sentiero che porta alla roccia vi sono cinque coppie di vasche, i cosiddetti “Palmenti”. Queste vasche servivano a favorire la decantazione dell'acqua lustrale come quelle presenti proprio presso i santuari egizi; molto probabilmente in loco si svolgevano riti in onore delle divinità astrali e ci si bagnava con la cosiddetta acqua di stelle, ossia che fosse stata tutta la notte sotto le stelle durante il novilunio dei Pesci, l'unico in cui la luna è totalmente nascosta dal sole. Si trattava pertanto di un bagno purificatore e di buon auspicio per l'inizio di un nuovo anno. Lo stretto legame della Lucania con i riti magici è dunque molto antico.
I riti magici
Un rito è una cerimonia costituita da un atto o insieme di atti che vengono eseguiti secondo norme codificate. I riti generalmente sono strettamente connessi con la religione oppure con una dimensione mitologica o più in generale con la sfera del sacro.
Il rapporto della Lucania con la magia, intesa in senso ampio, è arcaico e profondo tanto da creare e codificare veri e propri rituali stratificati nel tempo ed entrati pienamente nella tradizione popolare.
Uno dei riti magici più importanti e conosciuti è la cosiddetta fascinazione o affascino. Ernesto de Martino la definisce una: «condizione psichica di impedimento e di inibizione, e al tempo stesso un senso di dominazione, un essere agito da una forza altrettanto potente quanto occulta, che lascia senza margine l’autonomia della persona, la sua capacità di decisione e di scelta». La fascinazione, in pratica, è il termine di uso locale per definire quella forza maligna che in genere viene definita “malocchio”. Il termine ha una indubbia derivazione latina cioè da “fascinum” che indicava appunto un maleficio o un mormorio incantatorio. Questa energia negativa ha un mezzo fisico attraverso cui si proietta sulla vittima ossia gli occhi, mentre la passione motrice è senza ombra di dubbio quasi sempre l’invidia. L’affascino si manifesta generalmente con il mal di testa.
Nella tradizione lucana l’affascino può essere di tre tipi: contro le persone, contro gli animali oppure contro le abitazioni. Le persone prese di mira sono soprattutto i bambini e gli sposi. Secondo tradizione il bambino corre il pericolo di essere guardato con invidia malefica quando sta nella propria culla e per tale motivo vengono posti in essa vari amuleti.
Un oggetto magico molto particolare e usato in questo ambito è il cosiddetto abitino ossia un sacchettino di stoffa di solito a forma quadrata o rettangolare, distinto in tre diversi elementi: il primo ha dentro il velo comunemente chiamato camicia; il secondo riporta cucito su un lato l’immagine della Madonna del Carmine; il terzo li contiene entrambi. Nell’abitino si mettevano acini di sale come buon auspicio e prosperità, parti di animali, un chiodo di ferro (il ferro era considerato il nemico del diavolo), aghi a forma di croce utili a cucire tra loro metaforicamente gli spiriti aggressivi o l’immaginetta di un santo. L’abitino non è mai stato proibito dalla chiesa a conferma della tolleranza nei confronti del sincretismo tra religione e magia presente nella società contadina lucana.
La masciara
Per risolvere i problemi di affascino si ricorreva alle “cure” di una figura carismatica e spesso avvolta nel mistero, a metà strada tra la pratica magica e quella terapeutica. Si trattava della cosiddetta masciara ossia generalmente una donna anziana depositaria del segreto di formule a carattere sacro.
Il termine masciara rimanda alla megera della mitologia greca, una delle tre Erinni o Furie, sorella di Aletto e Tisifone. Il nome deriva dal greco Μεγαιρα che indicava una persona invidiosa. La megera, inoltre, poteva indurre a commettere delitti, ma anche a praticare l’infedeltà matrimoniale. Era una figura rispettata e temuta in quanto le venivano attribuite poteri sovrannaturali. A volte vivevano ai margini della società. La si riteneva anche una persona senza anima poiché l’aveva venduta al diavolo in cambio proprio dei poteri magici capaci non soltanto di guarire specifiche malattie, ma di procurare anche dolori, determinare il crollo di una casa, distruggere un raccolto e in casi estremi causare la morte di una persona. Le sue azioni venivano di solito compiute su commissione di persone terze desiderose del male altrui.
Molto interessante erano le modalità operative; tra queste, per esempio, vi era un rito particolare: spegnere in una bacinella d’acqua salata tre tizzoni ardenti presi dal camino. Si tracciava per tre volte, con la mano sinistra, un segno di croce e ogni volta si recitava un Padre Nostro, un Ave Maria e un Gloria.
Un altro rituale riguardava una sorta di autocura che si usava in casi particolari: si versava una goccia di olio nella bacinella e si osservava se l’olio si spandeva; se ciò fosse accaduto sarebbe stato confermato l’affascino e l’acqua andava buttata a un crocevia di modo che chi passasse prendeva su di sé la forza malevola.
Un’altra pratica magica e curativa prevedeva che l’operatrice segnasse sulla testa dell’affascinato (o addirittura su di un suo oggetto se si trattava di un’operazione a distanza) per tre volte il segno della croce mentre si recitava un Padre Nostro, un Ave Maria e un Gloria; se l’affascino era presente, la guaritrice cominciava a sbadigliare come se patisse su di sé la forza malevola. Con questo metodo si capiva non solo se l’affascino era presente, ma anche chi l’avesse fatto. Se, infatti, si sbadigliava durante il Padre Nostro era stato un maschio, se si sbadigliava durante la preghiera dell’Ave Maria allora si tratta di una donna, mentre se succedeva durante la recitazione del Gloria l’artefice era un religioso.
La masciara preparava anche pozioni magiche che generalmente erano un infuso di oppio o suoi derivati, conosciuto come "papagna". Si preparava mettendo a macerare a caldo i pistilli di papavero variopinto che cresceva spontaneo nei campi coltivati specie a grano. La papagna era usata per i neonati quando senza motivo piangevano o tardavano ad addormentarsi. Si provvedeva anche a preparare le pozioni con altri vegetali tipo la mandragora il cui liquido in alcuni casi poteva provocare uno spaventoso delirio. Lo stesso effetto produceva lo strammonio detto "erba del diavolo"; questa, oltre al delirio, poteva produrre allucinazioni e temporanee alterazioni psichiche e somatiche.
Per calmare l'infermo si usava invece un preparato con l'aconito; questo produceva un profondo letargo tanto, in alcuni casi, da indurre a pensare che si trattasse di morte apparente.
La fattura d’amore
Ovviamente un altro campo di applicazione molto importante era la sfera affettiva e sentimentale. La fattura e quella d’amore nello specifico era un rituale magico non propriamente di origini autoctona ma comunque in Lucania assumeva una valenza particolare. Si trattava di un rituale compiuto per creare o sciogliere un vincolo amoroso.
Per compiere l’atto magico in tal caso la masciara aveva bisogno di un oggetto appartenente alla persona oggetto della fattura. Poteva essere una ciocca dei capelli, un indumento (un vecchio pantalone, un lembo di camicia, di mutanda, una calza, magari reperibili con accortezza durante il loro lavaggio presso il lavatoio pubblico) o un suo oggetto personale (scarpa, collanina, fazzoletto). Ricevuto l’oggetto richiesto si procedeva a compiere l’atto magico alla presenza dei richiedenti con specifiche formule segrete. Si verificava che l’affatturato col passare dei giorni si mostrasse svogliato e disattento in particolare nei confronti della persona amata o al contrario improvvisamente fortemente interessato.
Di solito erano le donne non corrisposte a ricorrere all’intervento magico. La forma più complessa del rito consisteva nell’utilizzo di una pupattola alla quale si attribuiva il sesso della persona cui indirizzare il rituale. La masciara incorporava nella pupattola il materiale organico appartenente alla persona da “affatturare”, quindi, recitando formule segrete conficcava con forza tre spilli oppure tre chiodi in tre punti diversi: testa, cuore, sesso. Così preparata la si doveva deporre, nascondendola, presso l’abitazione del destinatario oppure, se possibile, la si seppelliva oppure la si inchiodava su un muro confinante la sua casa. Insomma, la distanza tra il soggetto e l’oggetto doveva essere minima affinché l’atto magico sortisse il suo effetto.
I filtri d'amore destinati all'uomo erano composti da sangue catameniale (alcune gocce), secrezione delle ghiandole del Bartolino, alcuni peli delle ascelle o del pube e un po' di sangue (tre gocce) prelevato da un dito della mano sinistra o dal braccio sinistro. Questa pozione doveva essere ingerita dall'uomo che si voleva fare innamorare mescolata nel cibo. Per preparare il filtro destinato a far innamorare la donna bisognava invece sostituire alcune gocce di sperma al posto del sangue catameniale e omettere la secrezione delle ghiandole del Bartolino.
Questi rituali che oggi potrebbero sembrare anacronistici in realtà erano fortemente sentiti nell’ambito della società contadina della Lucania. Come annotava De Martino: «Questa è la Lucania di oggi: un mondo in movimento, nel quale ancora persistono tratti antichissimi o addirittura primitivi e al tempo stesso un mondo nel quale fermenta negli animi un potente impulso verso la civiltà, malgrado le delusioni e le asprezze della vita di ogni giorno».
«Faceva sì che tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi ricevessero un marchio sulla mano destra e sulla fronte; e che nessuno potesse comprare o vendere senza avere tale marchio, cioè il nome della bestia o il numero del suo nome. Qui sta la sapienza. Chi ha intelligenza calcoli il numero della bestia: essa rappresenta un nome d’uomo. E tal cifra è seicentosessantasei». Questo versetto tratto da Apocalisse è famoso perché in esso viene citato il famoso numero della bestia ma secondo alcuni potrebbe rivelare scenari futuri ma imminenti rispetto a come potrebbe diventare la nostra società.
Improvvisamente, ma poi neanche troppo, lo sviluppo tecnologico pervasivo e imperante potrebbe fornire gli strumenti idonei per plasmare e per certi versi imporre una società iper-controllata e distopica.
Dal riconoscimento facciale al monitoraggio dei social media fino al tracciamento delle attività digitali sono solo alcuni strumenti spesso sottovalutati ma potentissimi per instaurare forme di controllo e sorveglianza sociale.
Il 2020 sarà ricordato come un anno particolare ma forse non solo per l’avvento e lo sviluppo della pandemia. 2020 è anche la sigla di un progetto del quale si parla poco ma che forse potrà incidere profondamente nella costituzione del prossimo assetto sociale addirittura a livello mondiale.
Si tratta solo di fantasie complottistiche o c’è qualcosa di reale?
Che cos’è ID2020
ID2020 è un progetto nato nel 2015 quando alcune organizzazioni private e pubbliche si sono riunite formando la cosiddetta “Alleanza per l’identità digitale” con l’obiettivo altisonante di migliorare la qualità della vita di ogni essere umano. Il progetto è sostenuto addirittura anche dalle Nazioni Unite ed è stato incorporato negli obiettivi di sviluppo sostenibile proprio della stessa organizzazione mondiale nel 2016.
Nel sito ufficiale del progetto si legge che ID2020 è una sorta di partnership pubblica-privata che vede il coinvolgimento, come detto, oltre dell’ONU anche dei governi nazionali e dei soci fondatori delle maggiori multinazionali mondial che sono anche i più attivi finanziatori.
ID2020 potrebbe portare praticamente all’identificazione digitale di ogni persona del pianeta: un sogno accarezzato da sempre dalle élite mondiali per assicurarsi il controllo globale a livello politico ma soprattutto economico. Per fare questo la strada che si potrebbe intraprendere è quella dell’inserimento di un microchip nel corpo umano che potrebbe contenere tutte le informazioni personali di ogni singolo a livello mondiale.
L’identità digitale non solo prevedrebbe la possibilità di racchiudere tutte le informazioni personali dei cittadini in un microchip sottocutaneo, ma allo stesso tempo consentirebbe anche di somministrare i vaccini sotto forma digitale. Ecco, quindi, che l’emergenza sanitaria si sposerebbe perfettamente con le azioni dell’agenda programmatica del progetto, anzi potrebbe essere la spinta che renderebbe concrete le applicazioni delle misure in esso presenti.
Nello Stato del Texas, negli Stati Uniti, i poveri senzatetto vengono già utilizzati come cavie per la sperimentazione di un microchip proprio nell’ambito del programma operativo ID2020; anche il governo del Bangladesh ha aderito ufficialmente a questa iniziativa in via sperimentale.
L’identità digitale implicherebbe poi la costituzione una sorta di archivio basato su un cloud di documenti medici e di altre informazioni personali accessibili solo con il consenso del proprietario ma disponibili a livello planetario. Il sistema cloud (in italiano “nuvola informatica”) è in sostanza un sistema di erogazione di servizi offerti su richiesta da un fornitore a un cliente finale attraverso la rete internet che permette l'archiviazione, l'elaborazione o la trasmissione di dati a partire da un insieme di risorse preesistenti, configurabili e disponibili in remoto. In altre parole si tratterebbe di digitalizzare le nostre esistenze spostando di fatto online le attività che si svolgono quotidianamente.
Le implicazioni per la privacy sarebbero devastanti e inimmaginabili e comunque preoccupanti dal momento che tutti virtualmente potrebbero essere sottoposti a una vera e propria sorveglianza digitale di massa.
Il microchip consentirebbe, infatti, a chi gestisce l’archivio digitale di tracciare per esempio anche i movimenti. Il grande fratello digitale, sotto la scusa della tutela della salute personale e pubblica, potrebbe sapere in tempo reale dove si trova una persona e cosa sta facendo incrociando i dati della connessione a internet, l’accesso sui social, l’utilizzo dello smartphone e la geolocalizzazione.
I microchip sono delle dimensioni di un chicco di riso e possono essere impiantati nella mano sotto la pelle, tra l'indice e il pollice.
L'impianto dei microchip negli esseri umani è un metodo ormai non più recentissimo e utilizzato per inserire nel corpo umano un dispositivo di identificazione a radiofrequenza a circuiti integrati o un transponder RFID incapsulati in un involucro di vetro. L'impianto sottocutaneo contiene, di solito, un numero identificativo unico che può essere collegato a informazioni contenute su un database esterno, contenente i dati identificativi personali univoci. In futuro potrebbe diventare fattibile il collegamento di tali chip a un sistema di posizionamento satellitare che potrebbe permettere di individuare latitudine, longitudine, velocità, direzione del movimento di persone in ogni posto del mondo.
In Svezia, per esempio, si è già in una fase avanzata nella sperimentazione dell’utilizzo del microchip sottocutaneo: le persone che hanno già provveduto all’innesto sono in grado di passare la propria mano sotto gli scanner per l’accesso ad ambienti di lavoro o per l’utilizzo agevolato e veloce degli elettrodomestici o ancora come mezzo di pagamento per comprare beni e servizi.
La crisi sanitaria e la permanenza del coronavirus potrebbero essere quindi il pretesto perfetto per mettere al bando il contante e spingere verso altre forme di pagamento virtuali come, per esempio, proprio il microchip sottocutaneo.
Un progetto, dunque, che richiama, neanche troppo vagamente, la trama del grande fratello orwelliano e che potrebbe essere virtualmente utilizzato per tracciare qualsiasi cosa: dal conto in banca agli spostamenti, dalla situazione penale fino ad arrivare alla cartella clinica.
Il tracciamento della popolazione
Si legge nel manifesto illustrativo del progetto ID2020: «Oltre un miliardo di persone in tutto il mondo non è in grado di dimostrare la propria identità con alcun mezzo riconosciuto. In quanto tali, sono privi della protezione della legge e non sono in grado di accedere ai servizi di base, partecipare come cittadini o elettori o effettuare transazioni nell’economia moderna. […] Riteniamo che le persone debbano avere il controllo sulle proprie identità digitali, incluso il modo in cui i dati personali vengono raccolti, utilizzati e condivisi. Tutti dovrebbero poter affermare la propria identità oltre i confini istituzionali e nazionali e nel tempo. La privacy, la portabilità e la persistenza sono necessarie affinché l’identità digitale possa potenziare e proteggere significativamente le persone».
Attualmente il modo più fattibile per implementare l’identità digitale è tramite l’utilizzo dello smartphone o, come abbiamo visto, l’impianto di microchip RFID. Il programma andrebbe a sfruttare le operazioni di registrazione delle nascite, nonché delle vaccinazioni già esistenti, per fornire a ogni neonato un’identità digitale portatile collegata biometricamente.
Di grande attualità risulterebbe la funzione vaccinale che sarebbe possibile implementare tramite i cosiddetti “Quantum Dot Tattoos”, ovvero tatuaggi a punti quantici che implicano l’applicazione di microneedle a base di zucchero dissolvibili. Questi sono composti da due parti: il vaccino contro la malattia e dei punti quantici a base di rame fluorescente incorporati all’interno di capsule biocompatibili su scala micron. Quest’ultimi dissolvendosi sotto la pelle rilasciano dei punti quantici i cui schemi possono essere letti in futuro per identificare qual vaccino sia stato somministrato. Secondo una ricerca del team del Mit prodotta dal professor Robert Langer: «il “tatuaggio” invisibile che accompagna il vaccino è un modello costituito da minuscoli punti quantici ossia minuscoli cristalli semiconduttori che riflettono la luce che brillano sotto la luce infrarossa. Un giorno è possibile che questo approccio invisibile possa creare nuove possibilità per l’archiviazione dei dati e le applicazioni vaccinali che potrebbero migliorare il modo in cui viene fornita l’assistenza medica in particolare nei paesi in via di sviluppo».
Sembra che il progetto potrebbe comprendere anche il trattamento di altri dati e l’immagazzinamento digitali di alcune specifiche informazioni tipo la sostituzione dei documenti d’identità o le informazioni bancarie e commerciali.
Al momento anche l’UNICEF è una delle organizzazioni interessate all’identità digitale poiché vorrebbe registrare i bambini alla nascita per un miglior sviluppo sostenibile delle attività operative per l’implementazione dei programmi umanitari.
L’ID (Identità Digitale) potrebbe fornire un documento di identità digitale a oltre un miliardo di persone in tutto il mondo che non hanno modo di avere nemmeno un certificato di nascita o semplicemente dimostrare la propria identità. Senza ID queste persone, prevalentemente donne e bambini in Asia e in Africa, non potrebbero ottenere posizioni sanitari, assistenziali o bancari. Tale porzione della popolazione comprende anche i 60 milioni di rifugiati in tutto il mondo e molte donne vittime della prostituzione coatta la cui mancanza di identità impedirebbe loro di ottenere un aiuto concreto.
L’ID2020, dunque, può essere considerato un programma di aiuto a beneficio di quella parte della popolazione mondiale più debole o potrebbe rappresentare l’inizio di una nuova epoca caratterizzata da una riorganizzazione sociale molto simile a quella descritta nel lungimirante romanzo futuristico 1984 di George Orwell?
Fa riflettere una dichiarazione di David Rockefeller: «Alcuni credono che siamo parte di una congrega segreta che lavora contro gli interessi degli Stati Uniti, caratterizzando me e la mia famiglia come internazionalisti e cospirando con altri nel mondo per costruire una struttura economica e politica più integrata. Se quella è l’accusa, mi dichiaro colpevole e ne sono fiero».