Giornalista iscritto all'Albo Nazionale dal 2012
Attualmente redattore del mensile Mistero
rivista dell'omonima trasmissione televisiva di Italia Uno
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La Basilica di San Nicola di Bari è il cuore pulsante della città non solo perché si trova proprio nella città vecchia, ma soprattutto per quello che rappresenta dal punto di vista religioso e come simbolo identitario di un’intera comunità. Questo imponente edificio, però, oltre alla sua indiscussa e austera bellezza architettonica nasconde e custodisce alcune particolarità che lo rendono ancora più affascinante e per alcuni versi anche misterioso.
Un po’ di storia…
La fabbrica, in stile romanico, della basilica è stata iniziata tra il 1087, data della donazione di Ruggero Borsa al vescovo Ursone della corte del catapano e il 1197 periodo in cui ebbe altre importanti trasformazioni.
L'edificazione della basilica è strettamente legata alla vicenda di san Nicola le cui ossa furono trafugate da sessantadue marinai baresi dalla città di Mira (in Licia) e giunsero a Bari il 9 maggio 1087.
Le reliquie vennero traslate provvisoriamente presso il monastero di san Benedetto retto dall'abate Elia il quale promosse subito l'edificazione di una nuova grande chiesa per ospitarle adeguatamente. Fu scelta l'area che sino a pochi anni prima aveva ospitato il palazzo del catapano (governatore) bizantino, distrutto durante la ribellione per le libertà comunali e che Roberto il Guiscardo aveva donato l'anno prima all'arcivescovo Ursone.
Il 1º ottobre 1089 le reliquie furono trasferite nella cripta della basilica da papa Urbano II giunto appositamente a Bari.
La costruzione, frutto di almeno tre fasi successive, si concluse nel 1197. Fino al Concordato del 1929 era considerata come chiesa palatina ossia di patronato reale ed esente dalla giurisdizione dei vescovi locali.
Nel 1951, ponendo fine all'istituzione del capitolo dei canonici sin dalla prima metà del XII secolo, la basilica è stata affidata all'ordine domenicano.
Nel 1968 poi Paolo VI ha elevato il tempio alla dignità di basilica pontificia promulgando la costituzione apostolica Basilicae Nicolaitanae.
Una struttura maestosa
La basilica, considerata uno dei prototipi delle chiese romanico-pugliesi, sorge a poca distanza dal mare. La facciata a salienti, semplice e maestosa, è tripartita da lesene, coronata da archetti e aperta in alto da bifore e in basso da tre portali, dei quali il mediano, a baldacchino su colonne, è riccamente scolpito. Due torri campanarie mozze, di diversa fattura, fiancheggiano la facciata. I fianchi si caratterizzano per le profonde arcate cieche.
All'interno, presenta uno sviluppo planimetrico a croce latina commissa. È divisa in tre navate da dodici colonne di spoglio (sei per lato di cui le prime quattro binate cioè affiancate a coppie).
Il soffitto è intagliato e dorato con riquadri dipinti risalenti al XVII secolo. Tre solenni arcate su graziose colonne dividono la navata centrale del presbiterio.
L'altare maggiore è sormontato da un ciborio del XII secolo. Nell'abside centrale degno di nota è il pavimento con tarsie marmoree e con motivi orientaleggianti dei primi decenni del XII secolo.
Nell'altare dell'abside destro è presente un trittico di Andrea Rizo da Candia del XV secolo; nella parete retrostante si notano vari resti di affreschi trecenteschi.
Sulla destra è presente il ricco altare di San Nicola del 1684. Nell'abside sinistro campeggia una pala d'altare raffigurante la Madonna col Bambino in trono e i santi Giacomo, Ludovico, Nicola di Bari e Marco e un’opera raffigurante Cristo in pietà fiancheggiato dai santi Gregorio e Francesco eseguita da Bartolomeo Vivarini nel 1476.
Il ciborio sovrastante l'altare, realizzato prima del 1150, è il più antico della regione. All'interno della basilica è conservato uno dei maggiori capolavori scultorei del romanico pugliese: una cattedra episcopale realizzata al termine dell'XI secolo; da un'iscrizione posta sul retro si è fatto risalire l’opera agli anni tra il 1098 e il 1105. Se tale datazione fosse accertata, la cattedra costituirebbe uno dei primi lavori del romanico pugliese.
Due scaloni al termine delle navate laterali conducono nella cripta triabsidata, vasta quanto il transetto e sostenuta da 26 colonne abbellite da capitelli romanici. Una delle absidi laterali è destinata al culto ortodosso. Sotto l'altare centrale della cripta riposa il corpo di san Nicola.
L’edificio più importante di Bari nasconde alcuni misteri davvero affascinanti a metà strada tra la storia, la leggenda e il mito con risvolti sorprendenti e spesso poco conosciuti.
Uno dei misteri certamente più affascinati è quello legato a una presenza alquanto singolare che tocca il mito: l'immagine di Re Artù e dei Cavalieri della Tavola Rotonda. Secondi alcuni potrebbero essere rappresentati all'interno della lunetta di uno degli ingressi laterali, chiamata la Porta dei Leoni o anche Porta degli Otto Cavalieri. Nella fascia interna della lunetta, infatti, sono raffigurati proprio otto cavalieri, quattro per lato, che attaccano in sella ai loro cavalli, con le lance in resta, una cittadella fortificata, difesa da alcuni uomini appiedati. L'identificazione di questi cavalieri con quelli del ciclo arturiano non è esplicita, ma nasce dall'osservazione della straordinaria somiglianza di questo bassorilievo con quello che decora il Portale della Pescheria nel Duomo di Modena.
Tuttavia questa rappresentazione non sembrerebbe un caso isolato in terra pugliese se pensiamo anche al famoso pavimento musivo della Cattedrale di Otranto dove compare, tra i numerosi personaggi, Rex Arturius e anche questa volta in notevole anticipo rispetto alle tradizioni scritte del ciclo di Artù. L'ipotesi più plausibile è che prima di essere messe per iscritto in opere letterarie, le leggende su Re Artù e sul Santo Graal venissero tramandate oralmente da trovatori e menestrelli e non è escluso che questi fossero giunti in Italia al seguito delle invasioni dei Normanni. Tuttavia la strana presenza ha fatto della cattedrale barese uno dei tanti luoghi indicati come possibile custodia del Sacro Calice.
La cripta della Basilica di San Nicola custodisce altresì un gran numero di reliquie; il re di Napoli Carlo II d'Angiò (1285-1309) donò alla Basilica una Sacra Spina proveniente dalla corona che fu posta sul capo di Gesù durante la Passione e un frammento della Vera Croce. Il re angioino era intenzionato a fare della cattedrale la sua cappella regia. Questa spina santa ha la singolare proprietà, come altre della corona, di colorirsi di un alone rossastro ogni Venerdì Santo esclusivamente però nel caso in cui questo giorno coincidesse con l'Annunciazione (25 Marzo).
Molte delle altre reliquie vennero accumulate sotto la guida dell'abate Elia: un braccio di San Tommaso Apostolo, una ciocca di capelli della Vergine Maria e resti dei corpi di San Vincenzo martire, di San Giacomo Maggiore e San Giacomo Minore.
Sotto il dominio di Carlo d'Angiò, invece, vennero raccolte e accumulate molte altre reliquie o presunte tali. Tra esse ricordiamo: un frammento della Sacra Spugna che venne imbevuta d'aceto per inumidire le labbra di Gesù sulla croce, un dente di Maria Maddalena e un frammento della Croce del Buon Ladrone. Tra le altre, giunte anche nei secoli successivi, troviamo un frammento della veste di Gesù, una scheggia della Sacra Culla ove egli fu deposto appena nato, una goccia del sangue di Santo Stefano e una delle pietre che fu usata per la sua lapidazione. Molte di queste reliquie, la cui bizzarria ne palesa probabilmente la falsità, oggi sono andate perdute e di esse rimangono solo i preziosi reliquari che furono costruiti per esporle all'adorazione dei fedeli.
Una menzione a parte merita la cosiddetta Colonna miracolosa, ossia un frammento di colonna di marmo rossiccio che si può vedere ingabbiato in un angolo della cripta, a destra dell'ingresso. La devozione popolare attribuisce a questa colonna proprietà taumaturgiche.
Infine, ma non per importanza, bisogna necessariamente far riferimento alla storia di San Nicola e della manna miracolosa che stillerebbe ancora oggi dalle sue ossa e che avrebbe proprietà taumaturgiche.
Subito dopo la sua morte, infatti, dai suoi resti deposti all'interno della tomba preparata nella Basilica di Myra, cominciò a scaturire un liquido particolare, lattiginoso e profumato, chiamato myron (da cui successivamente avrebbe preso il nome la località) a cui i fedeli attribuirono presto un potere di guarigione. Anche dopo la traslazione dei resti a Bari il fenomeno è continuato incessantemente. Studi specifici e analisi batteriologiche e chimiche su campioni prelevati dall'arca del santo hanno dimostrato che essa è in realtà un'acqua straordinariamente pura, con un bassissimo valore di residuo fisso, non tipico delle acque di infiltrazione e di raccolta sotterranea.
Proprio ancora a San Nicola è legato poi un secondo mistero. Nel transetto destro della basilica si trova un altare, detto del Patrocinio, dedicato al santo e interamente rivestito di una lamina d'argento sbalzato, con undici riquadri raffiguranti la vita e i miracoli del santo di Myra. L'opera venne commissionata dal priore Alessandro Pallavicino agli orafi napoletani Ennio Avitabile e Domenico Marinelli, in sostituzione di un altare più antico.
La lamina d'argento posta al centro della mensa d'altare presenta un'insolita caratteristica. Nella parte centrale è cesellata a volute floreali, ma sui bordi, in una specie di cornice, riporta una fitta sequenza di lettere alfabetiche maiuscole, consonanti e vocali, apparentemente senza senso compiuto, a volte intervallate da piccoli gruppi di punti.
Si tratterebbe di un crittogramma, ossia di una scrittura cifrata sul quale sono state fatte numerose ipotesi e al quale è stato dedicato anche un numero speciale nel 1995 del fumetto Martin Mystere di Alfredo Castelli.
Potrebbe contenere le indicazioni per ritrovare una sacra reliquia o un tesoro, come sostengono alcuni, o si tratta più banalmente di un gioco, un enigma per scopi ludici e poi riutilizzato per ricoprire l'altare, come sostengono altri?
L'alfabeto è latino, mancano del tutto le lettere Z e U (quest'ultima probabilmente assimilata con la V) e tutte le N si presentano rovesciate. Bisogna precisare che anche lungo il perimetro esterno della chiesa, scorrendo le pietre delle mura, si notano alcuni bassorilievi e altre incisioni, molte delle quali presentano proprio ancora la N inversa.
L'ultima riga riporta solo 22 caratteri, ma nello spazio restante che inizialmente doveva essere stato vuoto è presente un'iscrizione in chiaro che riporta il nome dell'incisore, del committente e la data: "Magnificus Dominici Marinelli preditti altari FF. MDCLXXXIV" (Il Magnifico fece fare l'altare del predetto Domenico Marinelli 1684). Si capisce che l'iscrizione è stata apposta in seguito perché la grafia è diversa e nella fattispecie più grossolana e inoltre le N sono scritte normalmente.
Una caratteristica peculiare è che, soprattutto nella parte inferiore, molte delle lettere sono intervallate da piccoli punti, o serie di punti, tracciati quasi impercettibilmente alla base delle lettere. È stato ipotizzato perciò che il vero crittogramma da decifrare possa essere proprio quello presente nella fascia inferiore (in particolare le parole evidenziate dai puntini) e che il resto sia in realtà un testo casuale messo per sviare l'attenzione.
Nel mese di settembre del 2003, un articolo a firma dello storico e studioso Vincenzo dell'Aere rivelava di aver decifrato, insieme ad un altro ricercatore, Pierfrancesco Rescio, il crittogramma fornendo la seguente soluzione:
ARCA TESTA TECTA
A CRIPTA IN MIRA
ET GRADALE A SACEL(LO)
IN GALVA(NI) SEPULCR(O)
che può essere tradotto più o meno come: la cassa e il vaso nascosti nella cripta di Myra e il calice (proveniente) dal sacello di Galvano (Galgano) sono qui sepolti.
Se questa ipotesi fosse vera nell’edificio più sacro di Bari riecheggerebbe ancora una volta l’eco di Re Artù e del Santo Graal aprendo, di fatto, la strada a nuove e interessanti congetture.
I libri antichi esercitano sempre un certo fascino, forse per quella strana idea per la quale pensiamo che al loro interno ci possano essere celate conoscenze perse e non più facilmente accessibili o semplicemente perché la carta ha l’odore esotico della storia. Ora, proviamo per un attimo a immaginare cosa possa rappresentare un vecchio testo miscellaneo dove al suo interno si trovano: una trascrizione completa della Bibbia, vari trattati di storia, etimologia e fisiologia, un calendario con la lista dei santi, uno strano elenco dei monaci dei monasteri e infine formule magiche e altri documenti tra cui gli alfabeti greco, cirillico ed ebraico. Stiamo parlando del cosiddetto Codex Gigas conosciuto come Libro Gigante o anche in maniera molto evocativa Bibbia del Diavolo.
Da chi è stato scritto? Per quale motivo? Quali segreti custodisce? Un libro davvero strano e misterioso già a partire dal suo formato.
Il formato del testo
Il Codex Gigas è contenuto in una copertina di legno ricoperta di pelle, con alcuni ornamenti in metallo. Le dimensioni sono notevoli: 92 centimetri di lunghezza, 50 di larghezza e 22 di spessore, misure che lo rendono il manoscritto più voluminoso del medioevo, considerando anche il notevole peso di 75 chilogrammi.
Inizialmente conteneva 320 pagine di vellum (anche chiamata pergamena uterina), ossia un tipo di carta particolarmente sottile che si otteneva utilizzando la pelle ricavata da animali nati morti o da feti.
I fogli sono tutti numerati sul recto, sebbene tale dettaglio è stato aggiunto solo più tardi, probabilmente nel XVII secolo. Misteriosamente otto pagine sono state successivamente rimosse o si sono perse alimentando ulteriormente il mistero in merito all'origine e in generale al suo contenuto.
Nonostante la grandezza del manoscritto potesse rendere difficile la consultazione, il libro è stato consultato con continuità da monaci e studiosi nel corso dei secoli, come dimostrano varie note scritte su diverse pagine.
Il segreto della sua origine
Il Libro Gigante è il più grande manoscritto medievale riccamente miniato. Si ipotizza sia stato creato nel monastero benedettino di Podlažice in Boemia nei pressi di Chrudim (distrutto poi nel XV secolo) presumibilmente nel primo trentennio del XIII secolo.
È anche conosciuto, come detto, col nome di Bibbia del Diavolo per la grande illustrazione del demonio in esso contenuta e per la leggenda riguardo al fatto che l'autore, per scriverlo, abbia richiesto proprio l'aiuto del diavolo. Il codice pare sia stato creato da un certo Herman il Recluso; infatti secondo la leggenda egli s'impegnò, isolandosi nella sua cella, a produrre in una notte un'opera che glorificasse il suo monastero. Per redigere il manoscritto infranse i propri voti e per questo motivo era stato condannato a essere murato vivo. Per evitare tale punizione, il monaco promise di creare in una sola notte un'opera monumentale che potesse contenere al suo interno tutto lo scibile umano. Verso mezzanotte, resosi conto dell'impossibilità dell'impresa, evocò il diavolo implorando il suo aiuto. Egli glielo concesse in cambio, però, della sua anima. Il monaco acconsentì al patto e volle perciò aggiungere al testo un'immagine di Satana in segno di gratitudine. Alla fine dell’ultima pagina, lo scriba benedettino, si rese conto di quello che aveva fatto: insieme all’anima aveva perso anche la stabilità mentale. Nel delirio scatenato dal rimorso, implorò l’aiuto misericordioso della Vergine Maria che lo soccorse appena in tempo: il penitente morì, qualche istante prima di saldare il conto con il principe delle tenebre.
Nel codex il 1229 viene registrato come l'anno di completamento dell'opera. Il libro ha fatto poi la sua comparsa nel monastero cistercense di Sedlec e successivamente venne acquistato da quello benedettino di Břevnov.
Dal 1477 al 1593 è stato custodito nella biblioteca di un monastero di Broumov fino a quando venne trasferito a Praga nel 1594 per entrare a far parte della collezione di Rodolfo II d'Asburgo.
Alla fine della Guerra dei Trent'anni, nel 1648, tutta la collezione di Rodolfo II è stata presa dall'esercito svedese e dal 1649 il manoscritto è stato custodito nella Biblioteca Reale di Svezia a Stoccolma.
In seguito il Codex Gigas ha attirato la curiosità della regina Cristina I di Svezia la quale avendo messo insieme una vasta biblioteca, oggi in parte andata perduta, si interessò anche a questo libro fino a quando non abdicò nel 1655 per poi lasciarlo a Stoccolma.
Il 7 maggio 1697 scoppiò all'interno del castello reale un incendio che, partendo dall'ala nord, colpì anche la biblioteca reale e molti dei libri furono messi in salvo. Il Codex Gigas, date le sue enormi dimensioni e il suo peso, per essere salvato dalle fiamme fu lanciato da una finestra del palazzo. Probabilmente in quella occasione si smarrino alcune pagine.
Un enigmatico contenuto
Il Codex include una trascrizione completa della Bibbia tratta quasi interamente dalla Vulgata, ma stranamente ad eccezione degli Atti degli Apostoli e dell'Apocalisse di Giovanni che sono tratti invece dalla Vetus Latina. Per quale motivo? Forse per trascrizioni in tempi differenti?
Il testo include anche: la Etymologiae di Isidoro di Siviglia, due lavori di natura storica di Giuseppe Flavio, ovvero Antichità giudaiche e la Guerra giudaica, una storia della Boemia (Chronica Boëmorum) di Cosma Praghese, vari trattati (di storia, etimologia e fisiologia), un calendario con la lista dei santi, l'elenco dei monaci dei monasteri di Podlažicama, formule magiche e altri documenti tra cui gli alfabeti greco, cirillico ed ebraico.
Il manoscritto include miniature in rosso, blu, giallo, verde e oro. Le maiuscole iniziali sono minuziosamente miniate e frequentemente occupano l'intera pagina. L'aspetto del manoscritto resta fondamentalmente invariato dall'inizio alla fine, così come la calligrafia dello scrivano. Questo fatto ha alimentato la credenza che il manoscritto sia stato scritto in un periodo di tempo incredibilmente breve. In realtà alcuni studiosi hanno stimato che l'opera potrebbe essere il lavoro di un solo uomo che ha lavorato per oltre 20 anni. Gli studiosi del Museo Nazionale di Svezia hanno calcolato che a una mano esperta per scrivere una riga occorrano almeno 20 minuti. In base a questi calcoli, l’estensore del manoscritto per finire la sua opera avrebbe dovuto lavorare giorno e notte per almeno cinque anni di seguito.
Degna di nota è la pagina 577 (foglio 290 recto) che contiene, come accennato, un'immagine del Diavolo a tutta pagina della grandezza di circa 50 centimetri. Il diavolo è mostrato frontalmente, accovacciato e con le braccia sollevate in una postura dinamica come se volesse uscire dal testo. L’unico indumento che indossa è una mutanda bianca con piccoli trattini rossi a forma di virgola. Questi trattini sono stati interpretati come le code delle pellicce di ermellino, come simbolo rappresentante la sovranità. Le mani e i piedi terminano con solo quattro dita ciascuna e le unghie non sono umane ma molto più somiglianti a lunghi artigli felini. Le sue enormi corna sono rosse come se risultassero immerse nel sangue. La testa, verde scura, è ricoperta da una capigliatura di riccioli fittissimi; gli occhi sono piccoli con grandi pupille rosse, mentre le orecchie sono grandissime e tonde. Dalla bocca escono due lingue che sporgono agli angoli e i suoi denti sono piccoli e numerosi. La raffigurazione con due lingue evoca l’associazione con i serpenti e probabilmente fa riferimento metaforicamente alla lingua biforcuta così come riportato anche nel testo biblico.
Alcune pagine prima della famosa immagine testé citata sono scritte su fogli di pergamena stranamente anneriti che le danno un aspetto inquietante, in qualche modo differente dal resto del codice.
Nella pagina di fronte alla rappresentazione del Diavolo c’è una rappresentazione a piena pagina del regno dei cieli.
Episodi indecifrabili
I misteri intorno a queste strane pagine sono innumerevoli. Secondo alcune testimonianze risalenti al 1858, la Bibbia del Diavolo è stata la causa di un noto evento, apparentemente inspiegabile, che ha coinvolto direttamente il custode della biblioteca di Stoccolma: costui, addormentatosi durante la lettura del Codex, ha affermato di essere stato bloccato nella sala principale e che al suo risveglio si siano registrate attività che l’uomo stesso ha definito paranormali. L’uomo, ritrovato al mattino spaventato e rifugiato sotto un tavolo della sala lettura della biblioteca, nel giro di poco tempo fu internato in un ospedale psichiatrico poiché si ritenne fortemente assoggettato a disagi psichici.
Fatti simili sono stati riportati da altre fonti raccolte nel primo decennio del Novecento dallo scrittore Eugène Fahlsted; egli ha riportato la vicenda che ha riguardato personalmente un suo amico custode della biblioteca reale, August Strindberg, il quale, recatosi nelle ore notturne, in compagnia di alcuni suoi amici nella stanza nella quale era custodito il Codex Gigas, ha assistito a strani fenomeni mai totalmente spiegati.
Ancora oggi, dunque, restano intatte le domande di sempre: da chi è stato scritto realmente questo libro misterioso? Per quale motivo? Quali segreti custodisce?