Giornalista iscritto all'Albo Nazionale dal 2012
Attualmente redattore del mensile Mistero
rivista dell'omonima trasmissione televisiva di Italia Uno
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Langley sembra un posto fuori dal mondo. Le case hanno il tipico aspetto delle costruzioni americane; a prima vista non sembra un luogo misterioso né tanto meno enigmatico: contea di Fairfax, stato della Virginia, Stati Uniti d’America. Eppure Langley ospita uno dei centri di potere più importanti del pianeta. Quando si parla di Langley, infatti, si fa riferimento per antonomasia alla sede centrale della CIA (Central Intelligence Agency).
Nel lato nord-ovest del cortile della nuova sede del quartier generale dei servizi segreti americani si trova una strana struttura che non passa certamente inosservata. Una scultura come tante, con i canoni estetici un po’ naïf tipici dell’espressionismo esasperato dell’arte contemporanea. Si tratta di un pannello suddiviso in quattro parti con lettere perforate in una lastra di rame; la sequenza di lettere costituisce un messaggio cifrato che ha attirato l’attenzione dei maggiori esperti di enigmistica impegnati in una sfida mondiale per la decriptazione. Oltre alla scultura principale ce ne sono altre minori sparse per tutto il complesso: lastre di granito con un interstizio di rame; una di queste comprende anche una bussola. L’installazione è costata complessivamente 250.000 dollari. Il nome esotico e affascinante della scultura è Kryptos.
Che cos’è Kryptos
Kryptos deriva dal greco “κρυπτός” e significa “nascosto”. È stata installata il 3 novembre 1990 e da allora tiene sotto scacco i più importanti crittoanalisti.
La parte principale dell'opera è alta circa tre metri e mezzo ed è fatta di granito rosso, ardesia rossa e verde, quarzo bianco, legno pietrificato, magnetite e rame. Il granito è la base su cui poggia la lastra di rame perforata da 869 caratteri cifrati.
La struttura ha una forma a “S” disposta verticalmente ed evoca un tabulato che emerge da una stampante oppure lo schermo di un computer dal quale scorre un testo. Contiene quattro messaggi distinti, ognuno codificato con una parola chiave.
La scultura non è visitabile dal pubblico se non con permessi speciali e con una scorta.
Su lastre di roccia nel terreno circostante, inoltre, c’è un codice morse che contiene una frase misteriosa: “SOS, LUCID MEMORY, T IS YOUR POSITION, SHADOW FORCES, VIRTUALLY INVISIBLE, DIGETAL INTERPRETATU” (Sos, lucida memoria, t è la tua posizione, forze nell’ombra, virtualmente invisibili, digetal interpretatu).
Gli elementi che catturano subito l’attenzione sono: la lettera “t” isolata nel testo e le parole “digetal interpretatu” che sembrano essere scritte in maniera sbagliata; un indizio, forse, per gli impavidi decodificatori.
Jim Sanborn: l’autore di Kryptos
Jim Sanborn è un archeologo ma anche uno scultore-simbolista nato a Washington D.C. nel 1945. In molte sue opere ha inglobato quella che sicuramente è la sua passione: la crittografia. Parecchie sue installazioni contengono messaggi che non sono stati ancora decriptati.
Jim Sanborn realizza le proprie sculture con un metodo del tutto personale; dietro l’esteriorità delle sue opere, infatti, si cela una filosofia e uno studio ben preciso: nella materia egli vede la potenza del cosmo e delle forze invisibili della natura. Anche in questa occasione ha utilizzato materiali particolari; tra questi, in particolare, il legno pietrificato. Esso ha delle caratteristiche alchemiche degne di nota: la trasmutazione da un regno (quello vegetale cui appartengono le piante) in un altro (quello minerale cui appartiene la pietra). Degna di attenzione è anche l’accoppiata rame e magnetite: secondo la Legge di Lenz avvicinando un magnete a un tubo di rame la variazione di flusso del campo magnetico genera nel circuito una corrente elettrica indotta che origine a sua volta un campo magnetico che si oppone alla caduta del magnete, contrastando l'effetto dell'attrazione gravitazionale.
I materiali scelti dall'artista, infine, hanno la caratteristica di cambiare colore al variare della luce.
La soluzione parziale
Solo nel 1999, a oltre nove anni dall’impianto della struttura, la prima persona che pubblicamente ha annunciato di aver risolto le prime tre sezioni è stato James Gillogly, un esperto di informatica del sud della California; ha decifrato 760 caratteri. Ancora senza soluzione, invece, l’ultima parte del pannello.
Sanborn ha rivelato che la scultura contiene un enigma all'interno degli enigmi che sarà risolvibile unicamente dopo che i quattro passaggi cifrati saranno decodificati nel modo corretto.
Le tre parti decodificate fino a questo momento riportano messaggi suggestivi.
Nella prima sezione: “BETWEEN SUBTLE SHADING AND THE ABSENCE OF LIGHT LIES THE NUANCE OF IQLUSION” (Tra sottile ombreggiatura e l'assenza di luce si trova la sfumatura di Iqlusion). La cosa che colpisce in questa sezione è certamente la parola misteriosa “Iqlusion”.
Nella seconda sezione (fine del pannello 1) ritroviamo invece: ”IT WAS TOTALLY INVISIBLE HOWS THAT POSSIBLE? THEY USED THE EARTHS MAGNETIC FIELD X THE INFORMATION WAS GATHERED AND TRANSMITTED UNDERGRUUND TO AN UNKNOWN LOCATION X DOES LANGLEY KNOW ABOUT THIS? THEY SHOULD ITS BURIED OUT THERE SOMEWHERE X WHO KNOWS THE EXACT LOCATION? ONLY WW THIS WAS HIS LAST MESSAGE X THIRTY EIGHT DEGREES FIFTY SEVEN MINUTES SIX POINT FIVE SECONDS NORTH SEVENTY SEVEN DEGREES EIGHT MINUTES FORTY FOUR SECONDS WEST X LAYER TWO”. (È stato totalmente invisibile, come è possibile? Hanno usato il campo magnetico terrestre. Le informazioni sono state raccolte e inviate discretamente verso una destinazione sconosciuta. Langley sa di questo? Essi lo dovrebbero sapere, è sepolto là fuori da qualche parte. Chi conosce la posizione esatta? Solo WW. Era il suo ultimo messaggio. 38 ° 57' 6,5 Nord. 77 ° 8' 44 Ovest). Questo sembra essere il cuore del messaggio. Si parla del campo magnetico terrestre e, forse, ecco che si può rintracciare il collegamento con i materiali utilizzati e con la succitata Legge di Lenz. Si fa riferimento, poi, a una posizione esatta e a specifiche coordinate. Esiste un aneddoto particolare a proposito di questo. Nella quarta di copertina dell’edizione americana del “Codice Da Vinci”, il best seller di Dan Brown, si troverebbe appena leggibile la frase che è incisa anche sul Kryptos "Only WW knows" (“Solo WW conosce”). Proprio Sanborn aveva dichiarato che l'intera soluzione era stata data al direttore della CIA William H. Webster al momento della posa della scultura.
Sempre nella stessa copertina del famoso romanzo è riportata una coordinata geografica: 37°57'6,5"N 77°8'44"O; questa conduce a una contea in Virginia, denominata “King and Queen” (Re e Regina), nei pressi di una casa isolata. Nel testo decodificato, invece, è riportata una coordinata che differisce di un solo grado: 38°57'6,5" N 77°8'44"O e che corrisponde, invece, proprio alla sede della CIA.
Nella terza sezione (inizio del pannello 2) troviamo:
“SLOWLY DESPARATLY SLOWLY THE REMAINS OF PASSAGE DEBRIS THAT ENCUMBERED THE LOWER PART OF THE DOORWAY WAS REMOVED WITH TREMBLING HANDS I MADE A TINY BREACH IN THE UPPER LEFT HAND CORNER AND THEN WIDENING THE HOLE A LITTLE I INSERTED THE CANDLE AND PEERED IN THE HOT AIR ESCAPING FROM THE CHAMBER CAUSED THE FLAME TO FLICKER BUT PRESENTLY DETAILS OF THE ROOM WITHIN EMERGED FROM THE MIST X CAN YOU SEE ANYTHING Q (?)”. (Lentamente, disperatamente lentamente, i detriti che ingombravano la parte inferiore del passaggio sono stati rimossi. Con le mani tremanti ho fatto una piccola apertura in alto a sinistra che a poco a poco è stata estesa. Mi è stato poi portata una candela e ho osservato a lungo all'interno. L'aria calda che fuorusciva dalla camera faceva vacillare la fiamma. Ma ora, i dettagli della stanza mi apparvero in mezzo alla nebbia. Vedete qualcosa?).
Forse è una parafrasi in riferimento a una citazione attribuita a Howard Carter sulla scoperta della tomba di Tutankhamon. In questo caso emerge l’altra passione di Sanborn, ossia l’archeologia. Un collegamento importante dato che quella scoperta fu fatta proprio il 3 novembre 1922, nella stessa data ma esattamente 68 anni prima dell’installazione di Kryptos.
Ci sono altre coincidenze strane. La struttura che componeva la tomba del faraone era costituita da vari materiali tra i quali la quarzite di colore giallo e proprio il granito rosso, cioè uno degli elementi utilizzati anche da Sanborn.
… e la soluzione finale?
Un enigma, dunque, complesso e affascinate del quale nessuno ancora ha trovato la soluzione definitiva. Nel 2010 Sanborn ha deciso di dare una mano ai criptologi per quanto riguarda la parte finale del testo, rivelando che i caratteri dal 64 al 69 sono “NYPVTT”, poi decifrati come “BERLIN”.
A Berlino, guarda caso, esiste un orologio chiamato in inglese “Berlin Clock” che è esso stesso un enigma. Fornisce l’ora secondo la teoria degli insiemi tramite quattro file di caselle colorate luminose. Quando gli hanno chiesto se il nuovo indizio faceva riferimento all’orologio di Berlino, Sanborn ha risposto: “ci sono molti orologi interessanti a Berlino”. Nella capitale tedesca, infatti, esiste un altro orologio originale al quale forse si riferisce l’artista burlone. Si tratta di “Urania Weltzeituhr”, un orologio universale, considerato uno dei simboli della città e collocato proprio nella centrale Alexanderplatz. La struttura poggia su un mosaico in pietra raffigurante una rosa dei venti. Questa struttura alla mente il logo dell’agenzia della CIA che ha proprio al centro una stella riconducibile alla rosa dei venti. Una raffigurazione esoterica con una grande valenza simbolica.
Insomma, un groviglio inestricabile di enigmistica, codici segreti, simbolismi, esoterismo e concetti scientifici.
In occasione di un'intervista Sanborn ha espresso un concetto interessante per capire il suo intento e quello dei committenti dell’opera: "Prima che l'Agenzia scegliesse il mio lavoro per affrontare l'aspetto segreto della natura umana, esso già riguardava i segreti della Natura". Allora ritorna alla mente la prima parte del codice “Tra sottile ombreggiatura e l'assenza di luce si trova la sfumatura di Iqlusion” e con essa i primi versetti biblici di Genesi: “In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e Dio separò la luce dalle tenebre”.
“Di che segno sei?”. Per coloro che sono nati nel periodo che va dal 30 novembre al 17 dicembre la risposta dovrebbe essere “Sagittario!”. In realtà non è propriamente così. Esisterebbe, infatti, un tredicesimo segno zodiacale da inserire proprio a cavallo tra lo Scorpione e il Sagittario. Si tratta del segno dell’Ofiuco, collegato all’omonima costellazione già menzionata anche da Tolomeo, il padre dell’astrologia classica. Tra le tredici costellazioni dello zodiaco moderno è l'unica che, stranamente, non ha dato il nome a un segno astrologico.
Come mai si è verificata questa mancata attribuzione? Per capirne le ragioni e i risvolti nascosti bisogna procedere con ordine.
Che cos’è lo zodiaco
L’oroscopo, come sappiamo, è formato da dodici segni zodiacali. In astrologia esistono, però, due differenti sistemi zodiacali di riferimento, detti rispettivamente “zodiaco siderale” e “zodiaco tropicale”. Il primo si riferisce alle dodici costellazioni situate sull'eclittica celeste e che riproducono le figure dalle quali prendono il nome proprio i segni zodiacali; il secondo rappresenta, invece, la suddivisione dell'eclittica in dodici parti uguali, indipendentemente dall’ampiezza della costellazione.
Il tredicesimo segno
Proprio tenendo conto di queste considerazioni basilari entra in gioco il segno dell’Ofiuco; questo, come detto, è stato occultato nello zodiaco tropicale e si trova dietro il sole tra il 30 novembre e il 17 dicembre, modificando non solo il riferimento temporale classico del sagittario, ma a cascata anche degli altri segni.
Nel 1970 Stephen Schmidt ha proposto uno zodiaco addirittura di quattordici segni (includendo anche quello della Balena); nel 1995, invece, Walter Berg e Mark Yazaki hanno avanzato l’ipotesi di uno zodiaco di tredici segni; questa impostazione riscosse un buon successo soprattutto in Giappone.
L'Ofiuco è una grande costellazione, la cui parte meridionale ricade sulla Via Lattea in direzione del centro galattico. Si estende a cavallo dell'equatore celeste e questa posizione la rende visibile completamente da quasi tutte le aree della Terra, ad eccezione di quelle polari. Le stelle più luminose sono α Ophiuchi chiamata “Rasalhague” alla testa della figura e η Ophiuchi, visibile nella parte meridionale. Il periodo più adatto per l'osservazione va da maggio a ottobre, mentre nell'emisfero boreale è una figura tipica del cielo estivo.
I nati sotto questo segno vengono descritti come eremiti, saggi che portano l'illuminazione sulla terra o ancora filantropi, ambientalisti, amanti degli animali e della natura e si battono fortemente per i loro ideali supportati dalla solidità della loro etica; spesso possiedono doti o interessi nel campo del benessere psico-fisico.
Storicamente l’assenza di questo segno nell'oroscopo è imputabile principalmente al fatto che per i Greci e per l'astrologia Vedica i segni non sono semplicemente i corrispettivi delle costellazioni, ma un’arbitraria e precisa suddivisione dell'eclittica solare in dodici parti uguali; il sole transita nella costellazione dell’Ofiuco solo per diciannove giorni, molti di meno rispetto alle altre per esser preso in considerazione. Si tratta solo ed esclusivamente di questo?
L’origine mitologica
Ofiuco significa "colui che porta il serpente" o anche "serpentario" ovvero "colui che domina il serpente”.
La sua rappresentazione tipica è quella di un uomo barbuto con un enorme serpente avvolto attorno al suo corpo. Egli tiene la testa del serpente nella mano sinistra e la coda nella mano destra. L’uomo della rappresentazione mitologicamente è riconosciuto nella figura di Asclepio, il dio della medicina. I Greci, infatti, identificarono Ofiuco proprio con Asclepio, ossia il figlio di Apollo e di Coronis. Secondo la leggenda Coronis tradì Apollo con il mortale Ischys mentre aspettava un figlio da Apollo. In un impeto di gelosia Apollo colpì Coronis con una freccia. Piuttosto che vedere il suo bambino morire, strappò il feto dal grembo della madre e lo affidò a Chirone, il centauro saggio. Egli lo fece crescere come un figlio e gli insegnò le tecniche soprannaturali della guarigione. Asclepio divenne talmente abile nella medicina che non solo riusciva a salvare le vite umane, ma addirittura resuscitava i morti.
Un episodio particolare si verificò, infatti, con Glauco, il giovane figlio del re Minosse; mentre stava giocando cadde dentro un barattolo di miele e vi annegò; mentre Asclepio assisteva alla scena si avvicinò un serpente. Lui prontamente lo uccise con il suo bastone; allora si fece avanti un altro serpente con in bocca un'erba che depose sul corpo di quello morto che magicamente ritornò in vita. Asclepio prese la stessa erba e la pose sul corpo di Glauco e l'effetto magico si ripeté.
Un altro fatto simile si ripeté anche con Ippolito, figlio di Teseo, che morì precipitando dal suo carro. Mentre prendeva le erbe guaritrici, Asclepio toccò per tre volte il torace del ragazzo pronunciando parole propiziatrici e Ippolito ritornò in vita.
Asclepio ricevette dalla dea Atena il dono di cambiare il suo sangue con quello di Medusa la Gorgone. Da allora il sangue che sgorgava dalle vene del suo fianco sinistro era velenoso e portatore di sventure, mentre quello del fianco destro aveva il potere di guarire qualsiasi malattia e persino di fare risorgere i morti.
Ade, dio del mondo dell'oltretomba, si rese presto conto che il flusso di anime morte in transito nel suo regno si sarebbe drasticamente ridotto se questa tecnica soprannaturale di guarigione fosse diventata di conoscenza comune. Protestò con suo fratello Zeus e questi colpì Asclepio con una folgore. Zeus rese Asclepio immortale e lo tramutò nella costellazione dell’Ofiuco.
Il significato nascosto del serpente
Fin qui la cornice mitologica. Partendo da questi aspetti, però, è possibile rintracciarne altri che aprono la strada a un’analisi più approfondita. Certamente la rappresentazione dell’uomo barbuto con il serpente in mano porta al centro dell’analisi proprio il serpente; questo in prima battuta richiama al simbolo fallico, quindi alla capacità riproduttiva e, allargando la visuale, alla creazione come concetto più ampio che si ricollega ovviamente anche alla creazione di matrice biblica. Non a caso il serpente lo ritroviamo in Genesi e nel famoso episodio del peccato originale. Questo animale ha una particolare caratteristica: muta la propria pelle ogni anno, come se ogni volta rinascesse. Ecco, quindi, che ritorna il concetto della rinascita che si può riscontrare anche nella mitologia di Asclepio.
Nell’antico Egitto la costellazione dell’Ofiuco era collegata a un uomo realmente esistito e la cui vicenda era mitizzata in un personaggio dai contorni vaganti storici chiamato Imhotep (“Colui che viene in pace”) vissuto intorno al 3.000 A.C. Diverse fonti lo descrivono come un ministro famoso per esser stato un grande architetto e, soprattutto, per aver fondato la medicina egizia. A Imhotep, inoltre, è attribuita l'introduzione dell’elemento architettonico della colonna e la costruzione della prima piramide, quella a gradoni di Saqqara nel complesso funerario di Djoser.
Come è possibile notare in questo personaggio e nel suo alone mitologico sono condensati alcuni elementi distintivi che saranno poi ripresi in ambito massonico: la figura del grande architetto come entità suprema, ma richiama anche la figura del costruttore Hiram Abif; alla sua morte è collega il simbolo dell’acacia che spuntò dalla sua tomba come simbolo di rinascita. Potrebbe trattarsi della stessa pianta miracolosa indicata nella storia di Asclepio? Anche in questo caso ritorna prepotente il concetto della rinascita.
Stranamente nella cultura dell’antico Egitto troviamo una rappresentazione del serpente alato tenuto in mano da una donna. Un’immagine che si ricollega a quella classica dell’iconografia cristiana della vergine che schiaccia il serpente sotto il calcagno e che indica la vittoria sul peccato, incarnato proprio dall’animale strisciante.
È importante notare, inoltre, che l’Ofiuco abbraccia un arco temporale a ridosso della festività del Sol invictus che si celebrava il 25 dicembre e che era strettamente collegato ancora una volta al tema della rinascita del sole.
Molto probabilmente, dunque, l’oscuramento del Serpentario è dovuto a un’accurata opera di occultamento di conoscenze e simbolismi che dovevano restare nascosti. Una conferma potrebbe arrivare dal fatto che la parola “serpente” in ebraico si dice “nachàsc” che ha la medesima radice semantica che sta a indicare l’atto di conoscere in anticipo le intenzioni, ma anche la conoscenza mantenuta segreta. Questo concetto è emblematico se pensiamo alla vicenda biblica della tentazione di Eva proprio da parte del serpente, strettamente collegato, guarda caso, proprio all’albero della conoscenza.
Nelle antiche scuole mistiche il simbolo per indicare la parola era proprio il serpente; questo, inoltre, era l’emblema sacro per i faraoni, mentre la setta degli Esseni lo considerava un simbolo terapeutico. Addirittura nel libro di Enoch è descritto un angelo guardiano chiamato “Kashdejan” che aveva enormi conoscenze mediche ed era assistito proprio da un serpente molto sapiente.
A livello esoterico, dunque, il serpente ha una valenza ambivalente: da un lato rappresenta il male, ma è anche il detentore di un sapere riservato. Non a caso nelle vicende bibliche il serpente viene etichettato come il più astuto degli animali, molto probabilmente anche per le conoscenze iniziatiche che aveva; lo stesso serpente convince Eva barattando il peccato con la conoscenza del bene e del male che implica un sapere iniziatico, ma può avere anche un’eccezione medica e riferita al benessere fisico. Il cerchio si chiude: ritornano tuti gli elementi mitologici di Asclepio.
Gli aspetti esoterici
L’iconografia classica dell’Ofiuco, alla luce di queste ultime considerazioni, appare ora più chiara ed è possibile ipotizzare delle linee interpretative.
L’uomo barbuto che tiene in mano il serpente sembra quasi nell’atto di stenderlo. Notoriamente il serpente è sempre rappresentato attorcigliato a un albero, a un bastone o addirittura mentre si morde la coda. Non a caso lo stesso serpente attorcigliato a un bastone è il simbolo delle professioni mediche e richiama alla memoria anche la vicenda biblica di Mosè. Il serpente, dunque, sembra essere collegato al benessere fisico, come si può anche notare tenendo conto della tradizione tantrica di Kundalini, ossia della rinascita dell’energia serpentina attorcigliata e sopita e che può essere ridestata azionando i punti energetici dei chakra. Il Kundalini può generare energia positiva solo distendendosi verso l’alto.
Mettendo a sistema questi nuovi elementi è possibile rintracciare il vero significato del Serpentario e l’ipotetico motivo dell’occultamento di questo segno zodiacale. Al serpente è legato da un lato la conoscenza segreta e iniziatica e dall’altro il concetto della rinascita e della guarigione. Tutto questo ci riconduce al mito della guarigione tramite le erbe miracolose. Possiamo, dunque, concludere che il Serpentario fosse la rappresentazione mediata della trasmissione di conoscenze mediche segrete per la vita eterna?
C’è, infine, un altro episodio molto curioso legato al Serpentario. Il 17 gennaio 1967 fu pubblicato un piccolo opuscolo in lingua francese chiamato "Le Serpent Rouge. Notes sur Saint Germaine de Pres et Saint Sulpice de Paris".
Il libro, guarda caso composto proprio da tredici pagine, era stato scritto da tre francesi: Pierre Feugere, Louis Saint-Maxent e Gaston De Koker. I tre autori morirono subito dopo la pubblicazione in circostanze poco chiare. Ogni pagina conteneva strani versi riferiti ai segni zodiacali che includevano anche quello dell’Ofiuco. Sibillini appaiono proprio i versi riferiti al tredicesimo segno:
“Maledicendo i profanatori nelle loro ceneri e coloro che vivono sulle loro tracce, uscendo dall'abisso dove era stato tuffato, compiendo il gesto d'orrore: "Ecco la prova che del sigillo di SALOMONE io conosco il segreto, che xxxxxxxx di questa REGINA ho visitato le dimore nascoste". A questo, Amico Lettore, guardati di aggiungere o togliere uno iota ... Medita, medita ancora, il vile piombo del mio scritto contiene forse l'oro più puro”.
La trasformazione del piombo in oro è l’azione alchemica fondamentale per giungere alla realizzazione della pietra filosofale che, guarda caso, fornisce l’immortalità e la conoscenza assoluta del bene e del male.
“Buon cammino”. Con questa semplice frase si salutano centinaia di volte le persone che si mettono in cammino. Buon umore, zaino in spalla e tanta strada da fare nella maggior parte dei casi a piedi, ma anche in bici o a cavallo.
Il Cammino di Santiago di Compostela è il percorso che i pellegrini di tutto il mondo, fin dal Medioevo, intraprendono attraversando la Francia e la Spagna, per giungere al santuario situato all’estremo nord della penisola iberica, dove è custodita la tomba dell'Apostolo Giacomo il Maggiore.
Si tratta certamente del pellegrinaggio più importante della cristianità, infatti le strade francesi e spagnole, parti integranti dell'itinerario, sono state dichiarate “Patrimonio dell'umanità” dall'UNESCO.
Il simbolo per antonomasia che accompagna i viandanti nella loro fatica è la conchiglia di Santiago, denominata anche “vieiras”; nei secoli scorsi si utilizzava per accreditare i pellegrini che arrivavano a Santiago. Sin dall'antichità la conchiglia indicava metaforicamente la nascita, la vita e la purificazione dello spirito; la sua raffigurazione si ritrova negli affreschi di Pompei e nell’opera “La Venere” di Botticelli. La conchiglia, in particolare con riferimento al suo contenuto, rappresenta anche il basilare nutrimento delle popolazioni costiere. Nella tradizione cristiana, poi, è considerata, in riferimento al guscio, il simbolo della tomba che racchiude il corpo del defunto, dunque, legato al concetto della morte. L'inizio e la fine. Insomma, la vita intesa proprio come un lungo cammino, con un inizio e una fine.
“Il Cammino di Santiago, dunque, solo in apparenza potrebbe essere considerato un fenomeno di costume, ma in realtà rappresenta un’esperienza unica e personale”. È di questo avviso Rosario Recchia, quasi quarant’anni, originario di Ferrandina, un piccolo centro in provincia di Matera. Quest’anno è stato uno degli oltre duecentomila pellegrini che hanno affrontato e terminato il cammino di Santiago. Partenza da Saint Jeau Pied de Port e oltre ottocento chilometri percorsi in trenta tappe, seguendo il percorso più lungo dal versante francese e attraversando tutta la Spagna dai Pirenei all’oceano; un viaggio lento ma affascinante che ha toccato le città di Pamplona, Logroňo, Burgos e Leon, ma soprattutto una miriade di piccoli centri.
Come nasce l’idea di intraprendere il Cammino di Santiago?
Parecchie persone affrontano il cammino di Santiago come semplici turisti o come una prova di trekking, anche se ovviamente la spinta e la valenza principale resta sempre quella religiosa. Magari fanno solo il percorso più breve, quello di soli cento chilometri.
Nel mio caso, invece, ho deciso di affrontare questa prova esclusivamente per un motivo religioso e allo stesso tempo prettamente personale.
Esattamente dieci anni fa le condizioni di salute di mio padre si aggravarono in seguito a una grave forma di cirrosi epatica a tal punto che i medici ormai gli diedero solo poche ore di vita; in quel momento di disperazione e profonda tristezza mi recai a pregare nella piccola cappella dell’ospedale dove era ricoverato mio padre; il giorno successivo, quando ormai ero preparato al peggio ricevetti, invece, una telefonata dai medici che avevano in cura mio padre che mi comunicarono, con grande stupore anche da parte loro, che miracolosamente mio padre si era ripreso; nei giorni successivi le sue condizioni di salute migliorarono progressivamente e in maniera decisa fino alla completa guarigione. Mio padre è poi vissuto in buona salute per altri nove anni. Fu proprio in quel momento che feci una promessa a me stesso e a Dio: non sapevo ovviamente quando mio padre sarebbe morto, ma a un anno esatto da quella data sarei partito per affrontare il cammino di Santiago. Così è stato. Sono passati molti anni, ma non ho mai dimenticato quella promessa che avevo fatto.
Come immaginavi questa avventura prima di partire?
Immaginavo ovviamente tutta la strada da fare e temevo la fatica che si sarebbe accumulata inesorabilmente tappa dopo tappa; pensavo alle difficoltà che avrei potuto incontrare durante il tragitto, in particolare per l’alloggio e per il cibo. Inizialmente addirittura avevo in mente di accamparmi con la tenda. La promessa fatta e lo spirito di avventura, però, sono stati due elementi fondamentali; mi piaceva fantasticare sui posti che avrei visitato e questo aspetto per così dire “turistico” del viaggio stava prendendo il sopravvento nei miei pensieri.
Il cammino di Santiago, però, è un’esperienza unica, profonda, magica e misteriosa; già dopo le prime tappe mi sono reso conto che tutto quello che avevo immaginato nei giorni precedenti alla mia partenza era stato spazzato via inesorabilmente e sostituito da una dimensione più intima, mistica e di profonda riflessione.
Da subito l’elemento fondamentale è diventata la fede, come concetto ampio e dai contorni sfumati, declinata in mille modi nella fatica e nei pensieri dei tanti pellegrini in cammino.
Come ti sei preparato?
La mia preparazione è stata molto lunga: è durata circa quattro anni. In particolare ho comprato tutti i libri che trattavano questo argomento e ho visto i film e i documentari. In particolare ho letto con piacere e ho approfondito lo studio dei libri “La via lattea” di Piergiorgio Odifreddi e Sergio Valzania e “Vado a fare due passi” di Hape Kerkeling. In questi testi oltre ad apprendere informazioni tecniche necessarie per affrontare le varie tappe, ho trovato molti suggerimenti utili per l’approccio psicologico, fondamentale per chi si avvicina a questa prova.
Quali sono stati i pensieri che ti hanno accompagnato, invece, lungo il percorso mentre camminavi?
I pensieri che si affollano nella mente sono moltissimi e ovviamente lungo il cammino c’è una naturale e allo stesso tempo straordinaria propensione a pensare. Nei primi giorni si pensa soprattutto ai segnali da seguire per non perdere la strada; nei giorni successivi, invece, quando ormai hai acquisito una certa dimestichezza con le indicazioni i pensieri che mi hanno accompagnato lungo il tragitto sono stati di varia natura. Sono rimasto sorpreso nel constatare che la mente va a ripescare, senza un motivo apparente, ricordi vecchissimi che avevi quasi rimosso. Ho scoperto, però, che fa parte dell’analisi interiore che stai maturando. Sei in cammino soprattutto verso te stesso.
La bellezza del cammino, infatti, è quella di farti riallacciare il contatto con te stesso e necessariamente sei costretto a fare un’accurata analisi della vita che hai condotto fino a quel momento e come avresti voluto che fosse. Ho capito più cose di me stesso in un mese che in molti anni di vita. Il cammino è un viaggio nel viaggio. Un’esperienza straordinaria dove può succedere di tutto.
Raccontaci qualche aneddoto particolare che ti è capitato lungo il percorso.
Un giorno sono partito alle prime luci dell’alba e tutte le attività commerciali del piccolo paese dove mi ero fermato la sera precedente erano ancora chiuse, così non ho potuto fare la solita colazione abbondante necessaria per affrontare bene la tappa giornaliera. Sono partito lo stesso, ma a metà mattinata ero molto stanco e avevo fame. Non riuscivo più a camminare, così ho deciso di fermarmi per riposare un po’ e recuperare le forze. Mi trovavo in una radura e non si vedeva niente all’orizzonte, solo una distesa sterminata di campi incolti; mi sono seduto su una pietra e ho chiuso gli occhi. Poco dopo mi sono destato perché ho sentito un rumore; ho aperto gli occhi e ho visto un contadino che passava con un cesto. Mi ha rifocillato offrendomi un bicchiere di vino, un po’ di pane e alcune fette di formaggio. Ancora oggi ripensando a questa scena non riesco davvero a capire da dove sia sbucato quel contadino perché la zona era davvero deserta. Ecco questo è il Cammino di Santiago.
Che tipo di rapporto si instaura con le persone che fanno la tua stessa esperienza?
Questo è uno degli aspetti, a mio parere, più importante: riscoprire e valorizzare il rapporto con gli altri. Ti rendi conto che pur nella solitudine dei tuoi passi non sei mai solo. Quasi automaticamente si instaura un rapporto amichevole con tutti i pellegrini che incontri; fai un pezzo di strada da solo e poi li rincontri durante il percorso. La cosa straordinaria è che ci si aiuta vicendevolmente. Più volte mi è capito che persone conosciute da pochi minuti mi abbiano offerto da mangiare e mi abbiano dato dei soldi quando sono rimasto senza. C’è un clima di solidarietà e rispetto; la fede e la religiosità diventano elementi vitali e tangibili. Donare e ricevere diventano azioni quotidiane normali e quasi necessarie.
Io, per esempio, sono partito con uno zaino di oltre dieci chili; lungo il percorso ho donato molti oggetti che avevo a chi in quel momento aveva bisogno con grande piacere e con una naturalezza che mi ha sorpreso. Sono immagini e sensazioni che ti cambiano realmente e che porterò per sempre dentro di me.
Qual è l’immagine più bella che ti porterai dentro di questa esperienza?
Sono davvero tante. Le facce dei tanti pellegrini che ho incontrato. Persone anziane, giovani, malati. Ho visto anche persone sulla sedia a rotella che con passione e dedizione sono arrivate fino alla fine.
C’è un senso estremo di sacralità poi nel vedere lungo il percorso le croci che indicano le persone morte proprio mentre affrontavano il cammino.
Le tappe giornaliere, poi, ti fanno assaporare il contatto vero con la natura e si alternano dei paesaggi davvero incantevoli. Un’immagine, però, in particolare forse riassume il senso di questa avventura: il muro della cattedrale di Burgos dove ho visto una fila interminabile e multicolorata di zaini dei pellegrini affilati per terra. Quella immagine mi sovviene spesso alla mente: indica la diversità che caratterizza ogni persona, ma allo stesso tempo anche la condivisione del cammino e la volontà di arrivare alla fine. Un fotogramma molto bello scolpito nella memoria; in particolare a me ha dato la forza per continuare con una straordinaria e rinnovata determinazione, proprio quando la fatica iniziava a farsi sentire e pensavo di non farcela.
Cosa si prova quando finalmente si intravedono da lontano le guglie della cattedrale di Santiago?
Una grande soddisfazione, ma anche sentimenti contrastanti. Solo allora ti rendi conti dell’importanza del percorso che hai fatto e quasi ti mancano i sentieri che hai percorso.
La cosa più bella è assistere alla messa con il caratteristico “Botafumeiro” ossia l’enorme incensiere utilizzato per purificare l'aria della Cattedrale di Santiago quando è piena di pellegrini. Misura 160 centimetri e pesa 68 chili (100 chili quando è carico di carbone e incenso); sono necessari otto uomini per muoverlo e lanciato lungo la navata centrale raggiunge addirittura una velocità di 68 km orari.
Io personalmente ho pensato a mio padre e alla promessa che avevo fatto. Quando sono entrato in chiesa e ho abbracciato la statua di San Giacomo, come tradizione vuole, mi sono profondamente emozionato, come non mi succedeva da tanto tempo.
Alla fine, in sostanza, come ti ha cambiato questa esperienza?
Posso dire che mi ha cambiato profondamente; mi ha reso più forte e mi ha fatto capire che tutte le difficoltà della vita si posso superare, basta volerlo senza demordere.
Il cammino ti rende sicuramente più forte e ti mette al riparo dalle paure; ora ho una fede rigenerata.
Un concetto fondamentale resterà vivo in me: ho capito veramente cosa significa l’umiltà. Alla fine del cammino si arriva solo se hai l’umiltà di fare un passo dietro l’altro in maniera costante, con fatica ma consapevolmente.
“Ultreia” dice con voce pronta l’amico pellegrino; “et suseia” risponde prontamente l’altro viandante che s’incontra sul cammino; significa “più in alto” e “oltre” c’è Santiago, il cammino e la vita.