Giornalista iscritto all'Albo Nazionale dal 2012
Attualmente redattore del mensile Mistero
rivista dell'omonima trasmissione televisiva di Italia Uno
Per contatti e richiedere la presentazione dei libri mail: g.balena@libero.it
C’è bisogno di teatro? Sì, c’è ancora bisogno di teatro: è questa la risposta che giunge dalla sesta edizione della manifestazione del concorso nazionale dei corti teatrali “Ritagliatti” che si è tenuta il 9 aprile 2016 presso l’auditorium parrocchiale S. Giuseppe Artigiano di Matera e presentata dalla giornalista Antonella Losignore. L’evento promosso dalla UILT Basilicata (Unione Italiana Libero Teatro), come ogni anno, s’inserisce nella celebrazione della giornata mondiale del teatro. Anche in questa edizione è stata ampia e variegata la partecipazione; in particolare, dopo la fase di selezione, alla serata finale, con la possibilità di mettere in scena corti di circa quindici minuti, hanno partecipato le seguenti compagnie teatrali: Associazione Artistico Culturale “La Torre del Drago” Bitritto (Bari) con “Rabbia di Lupo” di Luigi Facchino e regia di Luigi Facchino; “Centro di Cultura Teatrale Skené” di Matera con “Questi figli amatissimi” di Roberta Skerl e con la regia di Lello Chiacchio; “Compagnia Teatrale I Resti di Amleto” di Mesagne (Brindisi) con “Dialogo con Edipo” tratto da “La Tomba di Antigone” adattamento di Maria Zambrano e regia di Cesare Pasimeni; “Futura Compagna SenzArte” di Montescaglioso (Matera) con “La fattoria degli animali” di George Orwell e l’adattamento e la regia di Cinzia Suglia; Gruppo Teatrale “Tutto Esaurito” di Matera con “Divise” di Franco Sciannarella e la regia di Franco Sciannarella; “Associazione Ramulia” di Agrigento con “Sotto il sole di primavera ”di Lillo Zarbo e la regia di Lillo Zarbo.
“Cosa può dire il teatro? Tutto! Il teatro può dire tutto” ha detto Anatòlij Vasìl’ev portavoce del messaggio della giornata mondiale del teatro 2016. “Ammassi di corpi rabbiosi e
nudi. Il teatro è sempre stato e ci sarà per sempre - continua il regista russo - C’è bisogno di ogni specie di teatro. E fra le molte e diverse forme di teatro, quelle arcaiche saranno le più richieste. C’è bisogno di teatro di ogni genere”. Ecco, l’edizione targata 2016 di “Ritagliatti” è stato tutto questo e molto altro grazie alla forza espressiva del teatro, quello vero che trasuda dai corti portati in concorso. Il teatro a scena aperta, senza sipario, che ha trasmesso l’emozione vibrazionale dei personaggi interpretati dagli attori e che parlano agli spettatori, come parte terza ma primaria, in un’alchimia che solo il teatro può creare.
Il primo premio della giuria di qualità come miglior corto è stato assegnato al “Centro di Cultura Teatrale Skené” di Matera con il corto “Questi figli amatissimi” di Roberta Skerl e con la regia di Lello Chiacchio. Spaccato, volutamente caricato di comicità, della vita domestica di una famiglia “normale” che volge quasi al tragicomico quando s’intrecciano le vicissitudini della quotidianità; allora l’unica chiave di lettura e l’unica difesa possibile sono l’ironia e l’autoironia che tende al sarcasmo quando sulla scena arriva una figlia che cambia corso universitario a cadenza regolare e un figlio che ritorna a casa e porta il figlio di nome Enea che la sua compagna ha avuto però con un’altra persona; allora è pungente la battuta: “Enea è il figlio di Troia”.
Miglior attrice secondo la giuria dei giornalisti è stata segnalata Giampiera Di Monte della “Compagnia Teatrale I Resti di Amleto” di Mesagne (Brindisi) che ha interpretato “Dialogo con Edipo” tratto da “La Tomba di Antigone” adattamento di Maria Zambrano e regia di Cesare Pasimeni; questo corto si è aggiudicato anche il secondo posto nella classifica stilata dalla giuria tecnica. Un dialogo toccante tra Antigone e suo padre; un confronto figurato e reale a distanza e sulla distanza che scenicamente si traduce nella rappresentazione del padre con i piedi legati e la stessa Antigone bendata nell’estremo tentativo di immedesimarsi nella cecità visiva e affettiva del padre. È una contaminazione completa, vicendevole e continua fino alla finale e reciproca liberazione fisica e dei pensieri, perché la condanna a vivere è più crudele della condanna a morte.
La palma di miglior attore, invece, è stata assegnata a Luigi Facchino dell’Associazione Artistico Culturale “La Torre del Drago” di Bitritto (Bari) che ha interpretato “Rabbia di Lupo”; un dialogo intimo e a tratti violento con il proprio sé da parte di uno scrittore in crisi, portato in scena con l’ottima sponda interpretativa nel ruolo dell’alter ego da Francesco Latorre. La scena è avvolta così da un senso di sospensione tra il tempo che passa, i ricordi che restano, i sogni e la paura di vivere.
Al terzo posto si è classificato il corto “Sotto il sole di primavera” di Lillo Zarbo facente parte dell’Associazione “Ramulia” di Agrigento. Un monologo soffuso con la sonorità del dialetto siciliano che fa riecheggiare storie di immigrazione e di guerra che troppo spesso vengono dimenticate.
Degni di nota anche gli altri due corti in concorso. “Futura Compagna SenzArte” di Montescaglioso (Matera) ha proposto “La fattoria degli animali” di George Orwell con l’adattamento e la regia di Cinzia Suglia; un condensato significativo del celebre libro dello scrittore britannico, arguto visionario delle dinamiche politiche e dei comportamenti umani in un’analisi di contesto dove si gioca sull’inversione di ruolo tra uomini e animali e sulla sovrapposizione degli stessi istinti predatori. La sintesi è la disillusione nei confronti delle sovrastrutture che prendono il comando. Il corto “Divise” di Franco Sciannarella del gruppo teatrale “Tutto Esaurito” di Matera è, invece, la rappresentazione di due sorelle divise dalla guerra; si gioca sulla doppia eccezione del termine “divise”, nel senso di separate, ma anche come indicazione delle divise militare. Divise per colpa delle divise. Le due sorelle si parlano attraverso il muro che rappresenta la divisione generata dalla guerra; un muro che in scena è reso “umano” e rappresentato proprio dalle comparse disposte in fila, perché la guerra è essenzialmente un fatto umano e soprattutto disumano.
Il teatro è tutto questo; nell’ultima edizione di Ritagliatti è possibile rintracciare un fil ruoge spesso evidente, altre volte nascosto e da scoprire: il teatro è nudità e dualità. La nudità dei piedi sul palcoscenico, del corpo che recita, del contatto a pelle, la nudità dell’anima in cerca della realtà, la nudità dei comportamenti umani nella guerra interiore e in quella fatta con le armi. Perciò il teatro diventa elaborazione anche della dualità: Antigone e suo padre, le due sorelle separate dalla guerra, gli uomini e gli animali nella “Fattoria degli animali” di Orwell, dello scrittore con sé stesso e del reduce di guerra con i propri pensieri.
Allora, ritornando alla domanda iniziale e richiamando ancora il messaggio della giornata mondiale del teatro, si può certamente dire che: “E solo di un certo teatro non c’è bisogno: il teatro dei giochi politici, della trappola politica, il teatro dei politici, della politica; il teatro del terrore quotidiano, singolo o collettivo; il teatro dei cadaveri e del sangue sulle piazze e nelle strade, nelle capitali e nelle province, fra religioni ed etnie”.
Pubblicato nella rivista Scena numero speciale 2016
Roma, 15 aprile 1987. In un’elegante strada del quartiere Monte Mario è quasi l’alba; la brezza mattutina fa sentire sulla pelle gli ultimi segni del rigore invernale che tarda a dissolversi nell’incalzare dei primi tepori primaverili. Un giorno come tanti nella sonnacchiosa ma rampante capitale italiana della fine degli anni’80.
Un uomo piccolo di statura e con l’andatura incerta esce in strada e si muove meccanicamente, quasi a scatti; si sposta a fatica, come se di colpo tutta la vita vissuta lo schiacciasse con il peso assoluto della forza di gravità dei ricordi. Rimembranze sfumate, in via di dissolvimento.
È giorno. Le prime luci del mattino conquistano in fretta ogni anfratto della città che si rimette in movimento.
L’uomo resta immobile per un momento, avvolto nel suo silenzio ovattato. Poi fa un passo verso la direzione ignota di sé stesso. Quell’uomo aveva 73 anni ed era il professore di economia Federico Caffè.
Potrebbe sembrare l’incipit di un romanzo giallo, invece è la realtà; è stata la realtà sfuggente ma contingente di un giorno che, a distanza di molti anni, tende a sbiadire e a immergersi silenziosamente nei ricordi di una storia rimasta in sospesa, di una vita rimasta appesa nel limbo, proprio come le vite di chi scompare nel nulla senza lasciare nessuna traccia.
Chi era Federico Caffè
Federico Caffè era nato a Pescara il 6 gennaio 1914. Si è laureato con lode all'Università di Roma nel 1936 in Scienze Economiche e Commerciali. Nel 1945 è stato consulente del Ministro della Ricostruzione durante il governo Parri. Ha lavorato inizialmente presso la Banca d'Italia e poi si è dedicato completamente all’insegnamento prima nelle Università di Messina e di Bologna e poi, dal 1959 fino al suo ritiro per raggiunti limiti di età, in quella di Roma.
Oltre ai suoi scritti accademici, è stato un attento commentatore dell'attualità economica su giornali e riviste con la pubblicazione di numerosi articoli e saggi.
Tra i suoi studenti più importanti vi sono stati Mario Draghi e Ignazio Visco.
Gli ultimi anni della sua vita sono stati segnati da alcuni episodi che lo hanno emotivamente provato molto: la morte della madre e della tata che lo aveva cresciuto, la scomparsa dei colleghi Ezio Tarantelli assassinato dalle Br nell'85 e di Fausto Vicarelli in un incidente stradale e quella del suo studente Franco Franciosi, stroncato da un tumore. Al momento del congedo dalla vita accademica ha sofferto un profondo sconforto. Agli amici più stretti confessò di non riuscire a scrivere e di avere amnesie sempre più frequenti.
Ha emozionato l'opinione pubblica italiana la notizia dell’impegno dei suoi studenti nelle ricerche in tutta la città di Roma nei giorni successivi alla scomparsa; ricerche che, purtroppo, non diedero nessun esito.
Il Tribunale di Roma, con sentenza del 30 ottobre 1998, ha dichiarato la morte presunta.
Alla scomparsa di Federico Caffè è dedicato il film di Fabio Rosi "L'ultima lezione", dove la parte dell'economista è interpretata dall'attore Roberto Herlitzka. Il film è tratto dal libro inchiesta di Ermanno Rea “L' ultima lezione” (Einaudi).
Il professore e lo studioso
Federico Caffè prima di essere un economista era un professore universitario e ci teneva molto a questo ruolo. Diceva: “Un professore non è un conferenziere, non parla occasionalmente a degli sconosciuti che con tutta probabilità non rivedrà più. Un professore dialoga con gli studenti dei quali conosce spesso tutto o quasi tutto: problemi e speranze, capacità e lacune, ansie e incertezze. Li assiste nei loro bisogni. Li segue lungo una strada che può finire il giorno dell'esame ma che può anche andare avanti fino a quello della laurea e oltre”.
È stato uno dei principali diffusori della dottrina keynesiana in Italia. Al centro delle sue riflessioni economiche c’è stata sempre la necessità di assicurare elevati livelli di occupazione e di protezione sociale, soprattutto per i ceti più deboli.
Il suo pensiero economico si colloca nell’ambito di quella si può definire “la terza via”: la ricerca di un capitalismo storico, cioè funzionante nella pratica, che avesse, però, una regolamentazione nell’interesse generale. Il filo rosso che lega insieme i numerosi interventi nell’ultimo decennio della sua vita è l’individuazione e la regolamentazione degli strumenti per il controllo democratico dell’economia.
Afferma in particolare l’economista nei suoi scritti: “Nessun male sociale può superare la frustrazione e la disgregazione che la disoccupazione arreca alle collettività umane”.
Una visione dell’economia, dunque, a servizio dell’uomo e a sostegno dei più deboli; questa è la concezione portante del suo pensiero che si può definire come “cristianesimo laico”.
Un intellettuale contro
Posizioni idealiste, dunque, perseguite con lo spirito del riformismo applicato alla realtà. Per capire chi era effettivamente Federico Caffè e, forse, per comprendere il motivo della sua scomparsa bisogna soffermarsi non solo sulla sua personalità, ma anche e soprattutto sul pensiero economico. Una vita da autentico riformista, da sempre contro l’arroccamento del sistema politico e finanziario.
Soprattutto negli ultimi anni della sua vita i suoi interventi pubblici si sono orientati verso una critica dura per quanto concerne la deriva piratesca degli speculatori finanziari e più in generale nei confronti di un sistema economico che non garantiva la stabilità, la trasparenza e la partecipazione democratica.
A più riprese ha affermato la necessità di arrivare a una separazione fra la gestione dell’intermediazione finanziaria da affidare ai poteri pubblici e l’attività produttiva che, invece, doveva essere lasciata al mercato, garantendo condizioni effettivamente concorrenziali e non posizioni oligarchiche imperanti.
In questa prospettiva, senza timore, si scagliava anche contro i soggetti istituzionali, anche sovranazionali, che a suo modo di vedere non garantivano l’equità. La sua preoccupazione per gli effetti negativi di un sistema internazionale che funzionava da sé, ma senza regole eque, emergeva anche nei commenti sprezzanti sul ruolo del Fondo Monetario Internazionale.
Perché è scomparso?
Un intellettuale scomodo, dunque, che dava fastidio all’establishment? O semplicemente la sua scomparsa è dovuta a motivi personali? Forse entrambe le cose.
C’è, però, un aspetto che può rappresentare una possibile chiave di lettura. L’economista ha avuto sempre una posizione molto netta nel denunciare la progressiva e inesorabile rinuncia alla sovranità monetaria, avvertita come un danno, in quanto aggravava il divario fra paesi ricchi e quelli poveri. A più riprese contestava il fenomeno dei movimenti “anormali” di capitali, evidenziando tutta la sua diffidenza verso formule semplicistiche che affidavano ad autorità sovranazionali di estrazione tecnocratica e non democratica l’esclusività dei controlli in ambito finanziario.
In uno dei suoi articoli ipotizzava, come provocazione ma neanche tanto, addirittura la chiusura delle borse.
Da sempre era convinto che “la sovrastruttura finanziario-borsistica con le caratteristiche che presenta nei paesi capitalisticamente avanzati favorisca non già il vigore competitivo ma un gioco spregiudicato di tipo predatorio, che opera sistematicamente a danno di categorie innumerevoli e sprovvedute di risparmiatori in un quadro istituzionale che di fatto consente e legittima la ricorrente decurtazione o il pratico spossessamento dei loro risparmi“. Una visione che, alla luce anche degli ultimi fatti di attualità, è stata più di una profezia.
Nonostante l’euro fosse all’epoca ancora poco più di un progetto, le sue perplessità sul sistema monetario europeo appaiono incredibilmente e tragicamente attuali.
Profetiche le sue parole quando dichiarava: ”in Europa abbiamo circa 10 milioni di disoccupati; né si prevede che il loro numero diminuisca negli anni ottanta”.
Parole lungimiranti e lucide soprattutto quando sinistramente denunciava il prepotere nelle borse degli “incappucciati”, come egli definiva “gli operatori ignoti che dall’interno o dall’estero sono in grado di avere una influenza non chiara e non verificabile su decisioni di rilevante importanza finanziaria o sull’andamento della borsa”. Parole pesanti come macigni, alla luce di cosa è successo in questi anni e di quello che continua a verificarsi.
Ci sono, poi, un paio di episodi che fanno riflettere: poco tempo prima della sua scomparsa, il 27 marzo 1985, il suo allievo Ezio Tarantelli è stato ucciso nel parcheggio dell’Università La Sapienza; attentato poi rivendicato dalle fantomatiche Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente.
L’altro episodio riguarda Aldo Moro. Nel 1974 il presidente democristiano ha favorito l'emissione di moneta cartacea a corso legale, le famose 500 lire con la testa di Mercurio, sottraendo di fatto la sovranità monetaria alla banca centrale e attribuendola allo stato, così come stabilito dalla costituzione. Moro si era avvalso per questa emissione proprio della consulenza di Federico Caffè che poco prima aveva pubblicato studi significativi sulla moneta “buona” e quella “cattiva” e si era messo di traverso alle privatizzazioni delle banche pubbliche, poi negli anni successivi, di fatto, tutte privatizzate.
Questioni non di poco conto se pensiamo che più o meno la stessa cosa aveva fatto anche Kennedy in America e dopo poco, come sappiamo, fu assassinato.
Per Federico Caffè l’incedere del capitalismo moderno era percepito come una sconfitta culturale e politica. A un certo punto della sua vita si sono mischiati insieme in una miscela esplosiva il suo imminente deperimento fisico e i primi sentori della crisi finanziaria e di riflesso, dunque, la sconfitta di alcuni ideali in cui credeva fermamente. Troppo per un uomo coriaceo come lui, troppo per una voce che gridava nel deserto lucidamente, nel ruolo infausto di una moderna Cassandra.
Il giornalista Giuseppe D’Avanzo in suo articolo parlando di Caffè lo ha definito come: ”economista disubbidiente e seduttore intellettuale, ha voluto lasciare il mondo e il peso di un enigma a chi è rimasto”.
Una vita dedita allo studio del sistema economico che improvvisamente diventa evanescente, esattamente come la sua vita sotto l’attacco della senilità: così a quel punto la sua vita diventa priva di senso, quasi presunta, proprio come la sua morte.
Per leggere l'articolo completo
Acquista online il numero di Mistero di Marzo 2016