Martedì, 19 Marzo 2024

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Le meraviglie nascoste della Cripta De Giorgiis - Agosto 2022

  1. Siamo in Lucania: una piccola regione nel cuore del sud Italia, spesso confusa con la Puglia o con la Campania; i più fantasiosi pensano sia la stessa cosa della Calabria o poco più in là. L’unica regione italiana che può essere chiamata con due nomi, ma nonostante questo invisibile e irrintracciabile sulla cartina geografica. Nel famoso film, Basilicata coast to coast, di Rocco Papaleo si dice che «La Basilicata esiste, è un po' come il concetto di Dio, o ci credi o non ci credi!». Allora, con un atto di fede, iniziamo un viaggio nel cuore di questa terra: direzione Tursi. Un piccolo paese come tanti ma diverso da tanti.

    Tursi è un comune della provincia di Matera con poco meno di cinquemila abitanti. Il centro urbano si è sviluppato a partire dal V secolo. Alcuni storici concordano sull’idea che il toponimo del paese derivi da Turcico, ossia il nominativo di un uomo d'armi di origini bizantine il quale ha ampliato verso valle l'antico borgo saraceno, donando alla nuova zona il nome di Toursicon, Tursikon o Tursicon.

    Nell’826, durante le campagne islamiche, in tutto il territorio meridionale dell'Italia ci sono state numerose e violente incursioni in prevalenza di popolazioni di origine saracena. Inizialmente le invasioni avevano lo scopo di depredare i villaggi e fare prigionieri da utilizzare come schiavi nei centri dell'impero islamico. In seguito, superata l'iniziale differenza religiosa e culturale con le popolazioni autoctone, gli invasori attorno all'850 hanno deciso di acquartierarsi in zone dominanti e strategiche per meglio controllare gli scambi commerciali all'interno del territorio. Nel 968, in piena epoca bizantina, è diventato capoluogo del thema di Lucania e sede vescovile di rito greco.

    Negli anni successivi, i saraceni, hanno abitato il borgo, lo hanno ingrandito e sono stati proprio loro a dare il nome Rabhàdi, a ricordo della denominazione dei loro borghi caratteristici. L'impronta saracena è ancora oggi presente nelle costruzioni, negli usi, nei costumi, nel cibo e nel dialetto di quella che poi è diventata la Rabatana.

    Il quartiere arabo: la Rabatana

    Il nucleo abitativo del centro storico è difeso naturalmente da tre voragini, di oltre centro metri, di origine franosa. Il quartiere dista circa sei chilometri dal centro abitato ed è un dedalo di stradine che sfociano spesso a strapiombo nei pressi di vertiginosi burroni. L'agglomerato urbano è munito di vie labirintiche che alternano ripidi pendii ad abbozzati pianori e si articola nelle piccole circoscrizioni dove in passato si sono costruite le cosiddette domus palaziate.

    La "città alta" era naturalmente difesa da ripidissimi strapiombi, i petti, rafforzati ulteriormente da strutture fortificate collegate al castello con due ponti levatoi che confluivano verso le rispettive porte cittadine.

    La gradinata che porta in Rabatana è un'ampia e ripida strada che si estende sui burroni per oltre 200 metri di lunghezza. Essa è chiamata in dialetto petrizze e poggia su un costone di timpa; in origine era un selciato a gradini di pietre calcari. Carlo I Doria Del Carretto, nipote di Andrea Doria e duca di Tursi, nel 1600 ha fatto costruire la strada a proprie spese al posto del pericoloso viottolo, con lo stesso numero di gradini di un suo Palazzo a Genova che in seguito ha denominato proprio Palazzo Tursi.

    Si scorgono i resti dell'antico castello costruito dai Goti, nel V secolo, per la difesa del territorio: alcune parti e in particolare i cunicoli sotterranei sono rimasti intatti. Il castello aveva una superficie di oltre 5000 metri quadrati e misurava 200 palmi di larghezza e 400 palmi di lunghezza; dentro le mura di cinta erano compresi un giardino, le cantine, le cisterne e comode abitazioni per i baroni. Per tradizione si crede all'esistenza di un cunicolo tra la chiesa di Santa Maria Maggiore e il suddetto castello che, nei tempi antichi, consentiva ai signori di recarsi indisturbati in chiesa.

    Chiesa di Santa Maria Maggiore

    La chiesa probabilmente risale al IX - X secolo e forse è stata costruita dai monaci basiliani. Il 26 marzo 1546 la bolla del pontefice Paolo III ha elevato la chiesa a collegiata. Nel corso dei secoli ha subito diversi interventi e ormai ha perso il suo stile originario, conservando soltanto la facciata quattrocentesca, mentre il resto è stato rifatto in stile barocco nella prima metà del XVIII secolo. L’interno è a tre navate con soffitto a cassettoni e un transetto che non oltrepassa le navatelle laterali. Sopra la porta d’ingresso principale è presente un affresco raffigurante la strage biblica di Sennacherib. In alto, sulle pareti laterali, sono raffigurati gli evangelisti San Luca e San Marco. In fondo alla navatella di sinistra è presente la cappella del trittico trecentesco attribuito al maestro di Offida (scuola di Giotto) che raffigura la Vergine in trono col Bambino e scene della vita di Gesù (tra cui la cacciata dei mercanti dal tempio), affiancata da tre episodi riconducibili al Battista e alla Maddalena.

    L'evento della strage di Sennacherib è un episodio piuttosto raro nella storia dell’arte ma vanta tuttavia un illustre precedente costituito da un dipinto di Rubens dedicato allo stesso soggetto. Tale evento è descritto nel Secondo Libro dei re della Bibbia: Sennacherib, re assiro, aveva cinto d'assedio Gerusalemme, determinato a distruggerla.  Ezechia, re di Giuda, invocò l'intervento divino in difesa della città, mentre l'esercito assiro si era acquartierato sotto le mura di Gerusalemme. La preghiera di Ezechia, come aveva profetato Isaia, trovò ascolto e «in quella notte l'angelo del Signore scese e percosse nell'accampamento degli Assiri centottantacinquemila uomini. Quando i superstiti si alzarono al mattino, ecco, quelli erano tutti morti» (2 Re; 19,35).  Sennacherib sciolse l'assedio e tornò a Ninive dove poi morì.

    Il vero tesoro della chiesa è la cripta alla quale si accede in fondo alla navata di destra.

    La misteriosa cripta De Giorgiis

    L’ipogeo, sottostante al presbiterio, si compone di tre piccoli vani comunicanti. Il vano d’ingresso (attualmente spoglio) introduce agli altri due. Il primo custodisce gli affreschi (sulla volta e alle pareti), l’altare dedicato a Santa Maria Maddalena e il sarcofago in pietra con lo stemma di San Giorgio della famiglia De Giorgiis, passato poi alla famiglia Doria.

    Gli affreschi sono attribuiti a Giovanni Todisco che li ha eseguiti, tra il 1547 e il 1550, per conto della Famiglia De Giorgiis probabilmente per adornare una cappella funeraria destinata alla sepoltura di due giovani appartenenti alla famiglia, forse fratelli, che morirono a distanza di pochi giorni, l’uno il 14 luglio l’altro il 2 agosto del 1547, rispettivamente all’età di 23 e 15 anni. Non ci è dato sapere di cosa perirono, ma presumibilmente questo evento ha causato anche l’estinzione del casato De Georgiis.

    Nel secondo vano è presente il presepe di pietra datato tra il 1547e il 1550. È composto da ben trentacinque figure in varie pose e nel contorno in alto riporta l’aspetto urbano (castello e cinta muraria) dell’antico abitato della Rabatana. Il presepe è attribuito ad Antonello Persio di Montescaglioso che ha lasciato significative tracce della sua arte scultorea a Matera e dintorni.

    La ricchezza e il dettaglio artistico degli affreschi sono notevoli e farebbero pensare a una committenza importante. Il tema riguarda la vita della Madre Vergine, dalla nascita all’annunciazione, ma sono raffigurate anche le figure di San Giovanni Battista, Sant’Antonio Abate, Santa Barbara e San Nicola e sulla volta, gli Evangelisti, i Profeti, i Dottori della Chiesa e due Sibille disposte intorno alla figura del Dio Creatore che occupa la parte centrale della volta.

    Aspetti simbolici ed esoterici

    La chiesa, la cripta e gli elementi pittorici suggeriscono una matrice simbolica che potrebbe far riferimento all’impianto esoterico di filiazione templare; sebbene, come ricordato, la chiesa probabilmente è stata fondata tra il IX - X secolo e quindi avrebbe potuto assorbire elementi della cultura templare, va comunque precisato che invece gli affreschi della cripta risalgono al XVI secolo. Va ricordato altresì che il probabile autore degli affreschi della cripta, ossia Giovanni Todisco, si formò a Firenze in un’epoca e in una città in pieno fermento rinascimentale e profondamente intrisa di esoterismo e simbolismo.

    Bisogna poi evidenziare che comunque nel territorio di Tursi di recente è stata rinvenuta una sepoltura di un cavaliere riconducibile all’epoca templare nonché monete con le scritte indicanti Gerusalemme.

    Il riferimento a Maria Maddalena (presente nella chiesa e nella cripta), la raffigurazione della cacciata dei mercanti del Tempio e della strage di Sennacherib oltre che la raffigurazione di San Giorgio sul sarcofago della famiglia De Giorgiis, sono tutti elementi riconducibili alla cultura templare o comunque a un sistema di conoscenze esoteriche legato al templarismo. Molto probabilmente la famiglia apparteneva all’ordine militare religioso di San Giorgio e questo spiegherebbe la presenza di alcuni chiari elementi simbolici ed esoterici.

    All’ingresso della cappella, sulla destra, possiamo notare sul paliotto dell’altare un dipinto a fresco con una scena interessante ed enigmatica: la croce con il teschio alla base è affiancata dalla
    figura di un giovane uomo in abiti cinquecenteschi, di foggia piuttosto elegante, che brandisce un’alabarda e sembra indicare o porgere la scritta di un cartiglio srotolato che recita: “HORRIDA MORS HOC EGIT” ossia “L’orrida morte fece ciò”, mentre vicino al teschio e attorno alla croce si dipana l’espressione: “MORS MEA MORTEM VESTRAM VICIT. ENIM LAET(ITIA) SPONTE DEDI ME VT VO(BI)S REDDEREM VI (TAM) ossia “La mia morte vinse la vostra. Infatti diedi me stesso spontaneamente con letizia per restituire a voi la vita”. Il riferimento potrebbe essere al lutto che colpì la famiglia.

    Altrettanto interessante risulta poi la raffigurazione sul lato della parete dove è collocato l’altare con il paliotto dove è affrescato l’episodio dell’incontro di Anna con Gioacchino, ritornato dal deserto dove si era ritirato dopo la cacciata dal Tempio. Sullo sfondo della scena affrescata vi è l’annuncio dell’Angelo a Gioacchino che pascola il gregge nel deserto mentre, in primo piano, Anna e lo sposo si abbracciano nei pressi della porta della città di Gerusalemme, attorniati da ancelle e servienti i quali recano sulle spalle e tra le braccia offerte sacrificali. La scena rinvia a episodi narrati nel Protovangelo di Giacomo, nel Vangelo dello Pseudo Matteo e nel Libro della Natività di Maria, filtrati nella Leggenda aurea del domenicano Jacopo da Varagine, opera ampiamente divulgata nella seconda metà del XV secolo.

    La lettura esoterica dell’intero impianto potrebbe far riferimento all’opera alchemica; notiamo, infatti, all’ingresso della cappella un’indicazione simbolica importante raffigurante una scala con la scritta TEMPLUM che potrebbe avvisare il visitatore, ma soprattutto l’iniziato, che quello che si sta per vedere è un percorso iniziatico. Ricordiamo che simbolicamente il corpo è il tempio di Dio. A conferma di questo notiamo l’evidente sproporzione della figura che sale le scale: l’iniziato, infatti, prima di incominciare un percorso di conoscenze è simbolicamente piccolo proteso invece verso l’ampliamento spirituale. Inoltre ha l’indice proteso verso l’alto dove è presente una figura autorevole verosimilmente religiosa, ossia appunto la gnosi spirituale.

    L’intera raffigurazione si potrebbe dividere idealmente in quattro fasi proprio come le fasi alchemiche. La Grande Opera, conosciuta in latino come Magnum Opus, è l'itinerario alchemico di lavorazione e trasformazione della materia prima, finalizzato a realizzare la pietra filosofale e simbolicamente il perfezionamento spirituale. Questa potrebbe essere anche la rappresentazione simbolica della vita della Vergine che arriva a generare Cristo e quindi la pietra filosofale figurativa. Originariamente le fasi della Grande Opera erano quattro. La prima è la Nigredo, annerimento o melanosi, associata all'elemento terra e in linea generale al piombo, alla putrefazione, alla decomposizione, alla separazione, al caos primordiale e a Saturno; se guardiamo, infatti, in alto sopra la volta di ingresso notiamo a destra una donna dalla pelle scura che appunto “separa” con un lenzuolo la scena; questo troverebbe riscontro anche dalla presenza in basso delle forbici ossia un oggetto che serve proprio per tagliare.

    La seconda fase è l’Albedo, ossia lo sbiancamento o leucosi, associata all'elemento acqua, all'argento, alla distillazione, all'alba e alla Luna; notiamo, infatti, sempre nella stessa parte dell’affresco la presenza di una donna che versa dell’acqua. A conferma della raffigurazione di queste due fasi troviamo sulla destra la scena del parto di Maria; la figura che incarna la madre di Maria è giovane e vecchia allo stesso tempo: giovane partoriente ma allo stesso tempo sarà anche nonna di Gesù. Questa contraddizione degli opposti è espressa anche con la presenza in basso di un gatto e un topo.

    Si passa poi nella parte bassa, nella sezione interna dell’arco d’ingresso della cripta; da un lato troviamo Giovanni Battista che potrebbe indicare la terza fase alchemica ossia il Citrinitas, l’ingiallimento o xanthosis, associata all'elemento aria, all'oro, alla sublimazione, al Sole e all’estate; infatti il santo si festeggia proprio il 24 giugno in prossimità del solstizio d’estate.

    Dall’altro lato, invece, troviamo Sant’Antonio Abate che rappresenta l’ultima fase ossia la Rubedo, l’arrossamento o iosis, associata all'elemento fuoco, al mercurio filosofale, al cinabro, al tramonto, all'incontro tra Sole e Luna, l'androgino quale fusione tra maschile e femminile, al matrimonio tra anima e spirito, alle nozze alchemiche, alla pietra filosofale e al caduceo; notiamo che questi concetti potrebbero trovare conferma nel fatto che proprio sopra la testa del santo si trova come abbiamo visto il gatto e il topo (contrapposizione degli opposti). Al santo, infine, è associato anche il famoso fuoco di Sant’Antonio e lo stesso, infatti, mostra proprio il bastone del Caduceo e della guarigione dalle malattie. In altre parole la pietra filosofale, guaritrice e portatrice della vita eterna, ma in questo contesto forse anche suggestivo riferimento alla prematura morte dei giovani rampolli della famiglia De Giorgiis.

    Notiamo, quindi, l’astuzia dell’artista nel “celare” in basso, attraverso due santi, le due fasi più importanti dell’opera alchemica.

    Infine, tutta l’opera (e simbolicamente anche quella alchemica) è vigilata dalla volta celeste proprio dal Creatore di tutto. Un altro aspetto certamente strano riguarda la presenza di due sibille ai lati del Padre Eterno proprio al centro della cappella.  Quale potrebbe essere il significato di questa inconsueta disposizione? Le sibille erano vergini ispirate da un dio (solitamente Apollo) dotate di virtù profetiche e in grado di fornire responsi, ma in forma oscura o ambivalente. Successivamente i cristiani hanno individuato nelle predizioni delle veggenti pagane l'avvento di Gesù Cristo e il suo ritorno finale.

    La figura dell’Eterno reca, su un lato, i seguenti versetti: “VENI SPONSA MEA, VENIDILECTA MIHI ossia “Vieni, mia promessa sposa, vieni, diletta a me” che rinviano al dialogo degli innamorati del Cantico dei Cantici ovvero, nell’interpretazione religiosa, all’amore supremo fra Dio e la sua creatura (…) tra JHWH e Israele, tra Cristo e la Chiesa, e anche tra Dio e l’anima o tra Cristo e Maria. Inoltre possiamo notare dal punto di vista simbolico che il Dio giudicatore è posto all’interno di un cerchio a sua volta iscritto in un quadrato; questo a livello esoterico indica la congiunzione della materia (il quadrato) con lo spirito (il cerchio).

    L’apparato decorativo della volta racchiude, contorna e unisce entro un serto floreale gigliato, undici oculi più quello centrale di Dio, quindi complessivamente nel numero di dodici, numero con evidenti valenze esoteriche.

    Se tutta questa interpretazione fosse corretta spiegherebbe forse anche la funzione della cappella funeraria come allegoria della morte e rigenerazione alchemica intesa come resurrezione e pertanto avrebbe un senso anche la presenza del presepe in pietra nella sala immediatamente adiacente che porrebbe simbolicamente in un circolo la morte e la nascita.

    Siamo in Lucania: un posto dell’anima, lontano e misterioso e proprio per questo ancora da scoprire. Un po’ come il concetto di Dio di cui parlava Papaleo nel suo famoso film.