Giornalista iscritto all'Albo Nazionale dal 2012
Attualmente redattore del mensile Mistero
rivista dell'omonima trasmissione televisiva di Italia Uno
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«Chiunque voi siate che intendete dedicarvi a questa scienza, custodite in fondo al vostro cuore una dottrina tanto eccelsa, occultatela con ferma costanza, non arrischiatevi a parlarne». L’autore di questa frase è Cornelio Agrippa von Nettesheim, uno dei maggiori occultisti ed esoteristi rinascimentali noto per la sua opera voluminosa e criptica conosciuta con il titolo di «De Occulta Philosophia». Cosa c’entra Tuturano, piccola frazione del comune di Brindisi, con il celebre mago tedesco? Lo scopriamo con Federico Sanapo, giornalista e autore del libro fresco di stampa dal titolo «Enigma Tutorius» che ci racconta del rinvenimento fortuito nel 2021 di uno strano graffito all’interno della torre di Sant'Anastasio proprio nel piccolo centro pugliese.
Parliamo prima di tutto brevemente di Tuturano.
Tuturano è un piccolo paese che è situato a circa dieci chilometri a sud-est di Brindisi. Oggi è una frazione del comune capoluogo. Il toponimo risalente all’epoca romana potrebbe derivare dalla parola latina «tutorius» e indicava i possedimenti della ricca famiglia dei Tutoria, gens originari di Delo e di cui si hanno numerose attestazioni epigrafiche sparse in tutta la regione in particolare a Canosa di Puglia. Scarse sono le testimonianze per quanto riguarda l’epoca messapica e romana; il toponimo potrebbe derivare in alternativa anche dal messapico «taotor» che vuol dire guardiano o protettore. Secondo alcuni studiosi Tuturano sarebbe uno dei pochi se non l’unico paese ad aver mantenuto nel nome sia la toponomastica messapica che poi quella latina. Notizie di un vicus Tuturanii si hanno nel 1097 quando il Conte Goffredo di Conversano e sua moglie, la contessa Sichelgaita, donarono la borgata di Tuturano alle monache benedettine di Brindisi.
Come è avvenuta la scoperta oggetto del suo recente libro?
La scoperta di cui vi parlo è avvenuta casualmente a opera di mio cugino Vincenzo Sanapo che nel 2021 stava effettuando un riordino dei libri all’interno del piano superiore della biblioteca Sociale Enzo Cosma, nella torre Sant’Anastasio: in particolare stava rimuovendo dei libri che erano rimasti accatastati prima del lockdown quando per caso lo sguardo gli è caduto sul davanzale della finestra del lato est e grande è stata la sua sorpresa quando ha notato il graffito, per cui visto che io sono solito interessarmi di archeologia e anche di misteri ha preferito contattare me per vedere se riuscissi a dare una spiegazione a quei misteriosi segni. Mi sono subito reso conto che si trattava di una simbologia ben precisa, ovvero le lettere Phi e il Pi-Greco e una figura identificata da me come l’occhio di Horus della tradizione egizia, il tutto racchiuso in un rettangolo anch’esso tracciato di proposito.
Sembra molto interessante anche il nome stesso della Torre; cosa ci può dire a proposito di Sant’Anastasio?
Si, come ho detto la torre è dedicata a Sant’Anastasio, un santo che “stona” per certi versi a Tuturano in quanto fino al 1600 nel paese era utilizzato il rito greco per celebrare la Santa Messa. Successivamente i preti greci, anche a causa degli effetti del Concilio di Trento, furono riformati e nella cittadina si cominciò ad utilizzare il rito latino. L’antica chiesa dedicata a Sant’Eustachio, che si trovava difronte la torre di Sant’Anastasio, crollò negli anni ’30 a causa dell’incuria in cui venne lasciata. Molto probabilmente questa chiesa nel corso del XVII secolo venne ridedicata a Sant’Anastasio, Papa della Chiesa Cattolica il quale era contro le cosiddette “regole basiliane” ovvero contro le regole di San Basilio utilizzate nel monachesimo greco. A Tuturano c’era una folta comunità di persone di fede greco-ortodossa in quanto il paese era abitato sin dal Medioevo da albanesi che praticavano il culto greco. La figura di Sant’Anastasio secondo quanto hanno tentato di spiegare gli storici, la cui epigrafe adesso si trova sulla sommità della torre (da qui il nome della torre), potrebbe essere quindi un monito a tutti i fedeli e rappresentare la “vittoria” del rito latino su quello greco.
A questo punto entra in scena la figura affascinante di Cornelio Agrippa che nel 1515 è stato certamente a Brindisi; perché è così importante questa figura in riferimento anche alla sua opera più famosa?
Come abbiamo detto il graffito rappresenta una simbologia del tutto particolare, ovvero il Phi, il Pi-Greco e quello che sembrerebbe a tutti gli effetti essere un occhio di Horus. La figura di Enrico Cornelio Agrippa entra in scena nella mia ipotesi ricostruttiva in quanto nel 2013 scrissi un articolo su Tuturano per una testata locale in cui cercavo notizie su presunti sotterranei, grotte e addirittura una necropoli che secondo le leggende locali si sarebbe trovata sotto piazza Regina Margherita, lì dove si trova la torre Sant’Anastasio e dove si trovava la chiesa medievale di rito greco. Sul mio gruppo Facebook di ricerca inerente alla chiesa di San Giovanni al Sepolcro (allora mi occupavo dei Cavalieri Templari) mi colpì un commento proprio sotto il post della condivisione del mio articolo dove un contatto affermava che la torre Sant’Anastasio fosse stata visitata dal mago e alchimista Enrico Cornelio Agrippa. Una notizia che avevo dimenticato e che mi tornò in mente alla fine dell’estate del 2021 quando avevo già intrapreso alcune ricerche inerenti al graffito della torre. A questo punto non potevo non andare a fondo a questa storia e quindi mi sono procurato subito una copia dell’opera più famosa di Enrico Cornelio Agrippa, il «De Occulta Philosophia». C’è un documento, precisamente una lettera, che Enrico Cornelio Agrippa scrisse a un suo amico da Brindisi nel febbraio del 1515, documento che certifica la presenza del mago nella città e quindi nel territorio immediatamente circostante la cittadina di Tuturano.
Quali sono secondo lei i riferimenti presenti all’interno del De Occulta Philosophia che potrebbero essere collegati al significato del graffito?
A mio avviso sono tanti, ma è bene precisare subito che la mia vuole essere soltanto una ipotesi. Il fatto è che ci sono numerose coincidenze con l’opera di Agrippa. Abbiamo detto che il graffito si trova inciso sul davanzale della finestra del lato est della torre Sant’Anastasio. Si tratta di un punto cardinale molto importante, anche perché come si sa che l’est è dove sorge il sole ma anche la direzione cui ci si rivolge per pregare. Le absidi delle cattedrali medievali sono orientate proprio in questa direzione, così come quelle in generale delle chiese. Non solo: Enrico Cornelio Agrippa ci spiega nella sua opera più famosa che il mago quando esegue qualsiasi rituale deve essere sempre rivolto verso oriente. Ma la cosa particolare è che nell’opera di Agrippa alla fine del primo capitolo del primo libro, quello dedicato alla magia naturale, egli disegna una complessa tabella in cui mette in relazione segni zodiacali, pianeti ed elementi naturali a quattro alfabeti antichi, ovvero quello greco, caldeo, latino e greco. A ogni lettera degli alfabeti corrisponde o un segno zodiacale, un pianeta o un elemento. Particolare molto interessante, che è quello che poi mi ha spinto ad andare ancora più a fondo nella ricerca, è che la lettera Phi presente nel graffito è collegata all’elemento aria che è associato proprio al punto cardinale est. Il Pi-Greco, invece, viene rapportato al segno zodiacale del Sagittario che si trova sotto l’influenza di Giove e collegato all’elemento fuoco. L’occhio di Horus poi da sempre è un simbolo che viene utilizzato anche come amuleto di protezione all’interno degli edifici. Quindi direi che i collegamenti non sono tanto forse diretti alla persona di Enrico Cornelio Agrippa, quanto alla sua opera e sembrano numerosi.
In questa scoperta sembra molto importante il rapporto tra Cornelio e l’alchimia. Potrebbe essere questa la chiave per decifrare questo graffito?
Effettivamente il fatto che siano presenti tali elementi all’interno del graffito potrebbe anche riportare a concetti alchemici. Anzi, la ringrazio per questa preziosa domanda, e tra l’altro ricordiamo che Cornelio Agrippa era anche un alchimista. Quando pensiamo all’alchimia solitamente facciamo riferimento alla trasmutazione dei metalli grezzi in oro e alla cosiddetta Pietra Filosofale; in realtà l’alchimia indica molto altro e per gli esoteristi ha sempre rappresentato un percorso di tipo iniziatico, un percorso esoterico appunto, verso la piena conoscenza del sé profondo. Le quattro fasi alchemiche (Nigredo, Albedo, Citrinitas e Rubedo) rappresentano appunto il percorso complesso che l’iniziato deve affrontare per arrivare alla Consapevolezza. Comunque effettivamente il graffito potrebbe anche contenere un significato alchemico. Allo stato attuale delle cose credo che la ricerca sia ancora tutta in divenire.
Quali sono, dunque, le ipotesi interpretative alle quali è giunto con il suo saggio?
Con Enigma Tutorius ho voluto dare prima di tutto un contributo alla storia del mio paese. Le ipotesi interpretative sono varie, ma la cosa che possiamo affermare è che sicuramente il graffito può mettersi in relazione con l’opera di Enrico Cornelio Agrippa. Quel graffito potrebbe forse essere stato inciso lì di proposito durante qualche particolare rituale, ma anche semplicemente per fare una bozza di un qualche talismano o molto probabilmente di una lamina magica. Il fatto che ci sia l’occhio di Horus mi fa pensare che possa essere un qualcosa che abbia a che fare con la protezione del luogo. Se poi sia stato Cornelio Agrippa a tracciare quel graffito oppure no, questo nessuno può saperlo con precisione. Rimane il fascino di un graffito misterioso che con molta probabilità ha una valenza esoterica. Vi ringrazio per l’interesse che avete mostrato verso la mia ricerca.
«All'interno c'era un vecchio, alto, sbarbato ma con lunghi baffi bianchi, vestito di nero dalla testa ai piedi: neppure una nota di colore in tutta la sua persona». Questa descrizione lapidaria, questo aggettivo probabilmente non è usato a caso, la ritroviamo in uno dei romanzi gotico-horror forse tra i più famosi: stiamo parlando di Dracula. Il romanzo epistolare, scritto dall'irlandese Bram Stoker nel 1897, è ispirato alla figura di Vlad III, principe di Valacchia. In realtà questo personaggio è realmente esistito ed è nato nel 1431; è stato un nobile, militare e politico rumeno di rilievo ma secondo la leggenda resta un personaggio immortale non solo per la sua fama ma anche per la sua particolare condizione di vampiro.
La vicenda narrata nel romanzo, infatti, inizia il 3 maggio 1890, diversi secoli dopo la nascita storica di Vlad. Il giovane avvocato Jonathan Harker è inviato in Transilvania dal suo capo Peter Hawkins per occuparsi dell'acquisto di un'abitazione a Londra fatto da un nobile rumeno, il Conte Dracula. L'inizio del viaggio del giovane è però all'insegna del contatto con il mondo superstizioso e pauroso della gente locale che cerca di scoraggiarlo dall'intento di incontrare il Conte che tuttavia si rivela essere un distinto nobiluomo che ha deciso di trasferirsi in Inghilterra. Con il passare dei giorni alcuni particolari diventano terrificanti, fino alla scoperta dell'oscuro segreto del Conte: egli è in realtà una creatura che si nutre del sangue dei viventi.
Fin qui la finzione narrativa, ma cosa c’è di vero e di storico in tutta questa vicenda e soprattutto in merito al suo protagonista? Ne parliamo con lo studioso Raffaele Glinni che da anni si dedica alla ricerca storica in merito a questa strana storia.
Iniziamo parlando brevemente di Bram Stoker; come tutta questa storia, così affascinante, può essere calata nel contesto del Sud Italia?
Normalmente collochiamo Bram Stoker nel mondo anglo-irlandese e la storia di Vlad Dracula in Romania. In realtà Bram Stoker non ha mai visitato la Transilvania. La storia di Vlad Dracula potrebbe incrociare Stoker non in Romania ma curiosamente proprio nel Sud Italia. Infatti, occorre evidenziare che la famiglia Stoker (il padre Abram, la moglie e le sorelle) si era trasferita a Napoli dove il padre lavorava per vari nobili anglo-irlandesi. Stoker aveva raggiunto Napoli con una nave e qui avrebbe conosciuto un misterioso frate domenicano che divenne uno dei suoi amici più fidati e lo accompagnò in giro per la città. Dagli appunti di viaggio si deduce che sicuramente ha visitato accuratamente il centro storico della città partenopea e ha effettuato un viaggio in treno sulla tratta Napoli – Foggia – Melfi, quindi a cavallo tra Campania, Puglie e Basilicata.
Passiamo, invece, alla figura di Dracula. Storicamente, dunque, in che modo probabilmente Vlad è collegato al Regno di Napoli nel XV secolo?
Dracula, Principe di Valacchia e voivoda (ossia principe) di Transilvania, è stato un eroe nella difesa del suo regno contro i Turchi ed ha ricevuto il titolo di crociato da parte del Papa; è stato implacabile contro i suoi nemici tra i quali alcune famiglie di Sassoni - Boiardi di Transilvania che seppellirono vivo suo fratello e uccisero il padre così da scatenare la violenta vendetta dello stesso Vlad. Il suo legame familiare con il Sud Italia è rintracciabile per il tramite del Re d’Ungheria, Mattia Corvino, poiché aveva sposato una stretta congiunta e la famiglia di Dracula soggiornava presso la corte del re proprio a Budapest. A sua volta Mattia Corvino sposò nel 1475 la figlia del Re di Napoli, Beatrice D’Aragona, il cui segretario era il Duca Alfonso Ferrillo, Signore di Acerenza in provincia di Potenza. A celebrare il matrimonio per procura a Napoli fu delegato un misterioso voivoda di Transilvania.
Dracula trascorse ben 12 anni presso la corte del Corvino ed ebbe sicuramente contatti con la corte Aragonese nel 1475 e quindi con i Ferrillo.
Da evidenziare che i D’Aragona, i Corvino e i Dracula erano tutti membri dell’Ordine del Dragone, ossia un cenacolo iniziatico basato però anche dal punto di vista politico su un patto militare di mutuo soccorso e assistenza contro i Turchi.
Stante l’unione dei regni e il patto del Drago, la figlia di Dracula, nipote del re Corvino, fu destinata in sposa al conte Matteo Ferrillo di Acerenza, come detto, figlio del segretario della D’Aragona; ecco che entra in scena la figlia Maria Balsha/Walsha (cognome che deriverebbe da Walsha ossia Valacchia).
Parliamo a questo punto brevemente dell’Ordine del Drago.
L'Ordine del Drago (o del Dragone) definito anche Societas Draconistrarum è stato un ordine militare del Sacro Romano Impero Germanico, istituito dall'imperatore Sigismondo per distruggere l'eresia hussita e contenere il potere dell'impero ottomano. Ne furono membri oltre a Vlad Tepes Dracula anche il celebre condottiero Albanese Giorgio Castriota Skanderbeg, (amico del padre di Dracula) insieme a ventisei membri di altissimo lignaggio quali per esempio re Alfonso V d'Aragona e suo figlio Ferrante, il principe Vitovd di Lituania, il duca Ernesto d' Austria, Cristoforo III duca di Baviera e i re di Danimarca, Svezia e Norvegia.
A questo punto la storia si sposta ancora più a sud e in particolare nel borgo di Acerenza. Quali sono i fatti storici a cui bisogna far riferimento?
Mattia Ferrillo era Signore di Acerenza, piccolo borgo in provincia di Potenza nell’entroterra lucano e le cronache storiche riportano che tutti i notabili del paese furono invitati al matrimonio tra Corvino e D’Aragona nel 1475.
La figlia di Dracula, nipote di Mattia Corvino e della D’Aragona, si trasferì all’età di circa sei anni, nel 1479/80 a Napoli e passò sotto la tutela di Isabella Del Balzo D’Aragona (moglie di Re Ferrante).
La principessa Maria, sposata al Ferrillo, fu di casa ad Acerenza, all’epoca chiamata Acheruntia e si impegnò con una ingente spesa (24.000 ducati) nella riparazione della locale cattedrale danneggiata da un terremoto presumibilmente nel 1456.
Acerenza è un piccolo centro, ma sembra centrale in questa vicenda; ha una splendida cattedrale che potrebbe custodire numerosi segni di questa storia. Quali sono?
La principessa e contessa Maria Balsha fece realizzare nella cripta della cattedrale di Acerenza un ciclo pittorico celebrativo della sua vita con espliciti riferimenti alle vicende del padre Vlad, di Mattia Corvino e dell’Ordine del Dragone. Negli affreschi furono utilizzati i colori ufficiali proprio dell’ordine del Drago.
Maria appare sul frontespizio con il marito e di fronte alla raffigurazione di un signore, sicuramente il padre di lei, raffigurato con il naso distorto e tagliato il che in Romania è simbolo di persona scomunicata. Palese, al di là di ogni dubbio, l’identificazione in quanto sovrapponibile con la testa del Drago che appare sulla stessa parete e che nel dipinto viene schiacciato da santa Margherita, patrona d’Ungheria, il tutto in una scena ambientata in una galera; questo corrisponderebbe con l’episodio della vita di Dracula riguardante la sua breve prigionia per ordine del re D’Ungheria nelle secrete di Mediash.
Nella stessa cattedrale alcuni rilievi e statue sono chiari riferimenti a mostri, vampiri e lupi mannari.
A ulteriore conferma di queste ipotesi a Napoli, in altri possedimenti della stessa Balsha, è stata poi realizzata una tomba monumentale per un membro militare importantissimo dell’Ordine del Dragone, visto l’esplicito simbolo ivi presente, ossia un grande Drago. Accanto alla lastra tombale appare una eccezionale scritta in codice segreto; secondo molti studiosi si tratterebbe di un codice miliare dove sarebbe leggibile la scritta Vlad di Valacchia. La scritta è stata oggetto di analisi scientifiche che ne hanno certificato la storicità coeva alla stessa tomba.
Parliamo nello specifico dell’affresco conosciuto come “La dodicesima notte dei Re Magi” presente nella cripta della cattedrale di Acerenza.
Nell’affresco della cripta detto della “Dodicesima notte dei Re Magi“ vi è un esplicito riferimento alla stella cometa che è il simbolo dei Dracula in quanto lo stesso assunse il regno nel 1456 in occasione del passaggio della cometa di Halley, simbolo usato anche sul gioiello di famiglia.
Nell’affresco Dracula appare invecchiato ed è inginocchiato, penitente ai piedi della figlia insieme ad altre due figure: il Re Corvino, identificato dall’elsa della spada e dalla corona, e presumibilmente il Re di Napoli. Dracula è raffigurato con il mantello e il celebre cappello con le perle che lo ritroviamo per terra. Davanti a lui il celebre vaso d’oro legato, oggetto di molti racconti dove si parla di lui; proprio sul vaso è ben visibile il blasone utilizzato dagli stessi nei loro carteggi: un sole dentro una mezzaluna il che non lascia dubbio sull’identificazione dei personaggi.
Nell’affresco il celebre gioiello, una stella con un rubino al centro che compare sul copricapo di Dracula, simbolo della famiglia, lo ritroviamo al collo di Maria Balsha, rappresentata con le sembianze della Madonna.
Quali sono gli altri elementi importanti che possiamo rintracciare nel libro di Bram Stoker?
Spesso la trama nascosta è più forte di quella manifesta come diceva Eraclito.
Stoker non chiarì mai dove avesse avuto l’ispirazione; dichiarò solo vagamente che l’idea gli venne dopo una cena a base di granchio e relativa notte insonne. Stoker potrebbe aver visitato la tomba napoletana a cui abbiamo fatto riferimento e in quella occasione avrebbe visto il grande Drago e altri simboli egiziani; nella visita probabilmente fu accompagnato dal suo amico frate appartenente all’ordine dei Domenicani che gli avrebbe fatto visitare questi luoghi.
Stoker, inoltre, era membro dell'organizzazione ermetica Golden Dawn e ben conosceva i simboli: per esempio quello delle tre stelle di Orione, presente sul blasone iscritto nella tomba napoletana è il geroglifico che indica “colui che non muore”; questo è sicuramente un riferimento molto forte alla vicenda di Dracula.
Molto interessante, poi, è la questione dei nomi, dei simboli e i richiami ai luoghi utilizzati nel libro. Per esempio è menzionata specificatamente proprio la località di Acerenza ossia Acheruntia; infatti Renfield (l’uomo che simbolicamente aspira all’immortalità) nel raccontare dove avesse incontrato Dracula menziona specificatamente Acheruntia; questo nome è molto simile alla farfalla Acherontia Atropos, tipica farfalla con la raffigurazione della testa di morto; possiamo a tal proposito verificare e comparare la lastra tombale di Napoli dove compaiono due sfingi, con al centro una testa di morto, il tutto a forma di farfalla.
Nel libro si sono poi due personaggi femminili ossia Mina Murray e Lucy Westenra; unendo i nomi, Lucy e Mina, esce fuori il riferimento latino “lux mina“ ossia luce o stella del mattino, termine usato dai templari per indicare taluni santuari dedicati alla Madonna del Mattino, ma anche in riferimento alla stella del mattino (pianeta Venere). Con tale termine si poteva poi indicare ovviamente anche la stessa Lucania (la cui etimologia significa “luce nuova” quindi proprio luce del mattino).
Mina Murray potrebbe anche far riferimento alla translazione del nome Maria Di Muro ossia esattamente il nome di Maria di Balsa in riferimento alla contessa di Muro e presunta figlia di Dracula.
Nel libro, infine, compare l’abbazia in rovina di Carfax, il tutto trova perfetta corrispondenza con la storia narrata nei dipinti della Cattedrale di Acerenza, in quanto la figlia di Dracula comprò effettivamente la cattedrale distrutta dal terremoto; il nome Acerenza, inoltre, significa sasso-rupe di Cher ossia “saxa Acheruntia“ che sembrerebbe addirittura identico al nome celtico di Carfax (sasso di Cher).
In definitiva, dunque, una strana storia: un filo diretto dalla Transilvania al Regno di Napoli e in particolare alla Lucania.
«Gesù riprese a parlar loro in parabole e disse: «Il regno dei cieli è simile a un re che fece un banchetto di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non vollero venire. Di nuovo mandò altri servi a dire: Ecco ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e i miei animali ingrassati sono già macellati e tutto è pronto; venite alle nozze. Ma costoro non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. Allora il re si indignò e, mandate le sue truppe, uccise quegli assassini e diede alle fiamme la loro città. Poi disse ai suoi servi: Il banchetto nuziale è pronto, ma gli invitati non ne erano degni; andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze. Usciti nelle strade, quei servi raccolsero quanti ne trovarono, buoni e cattivi, e la sala si riempì di commensali. Il re entrò per vedere i commensali e, scorto un tale che non indossava l'abito nuziale, gli disse: Amico, come hai potuto entrare qui senz'abito nuziale? Ed egli ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti. Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».
Il passo evangelico di Matteo, appena enunciato, ha un valore intrinseco non solo di carattere religioso; questo, infatti, è citato all’interno del romanzo La Cerca del Santo Graal, uno dei testi della saga cavalleresca diffusi a partire dal XII e attribuito al misterioso maestro Gautier Map.
In questo testo Galaad, figlio di Lancillotto, è destinato a porre fine agli eventi sinistri che da tempo immemore affliggono il regno di Logres, ormai definito Terra Guasta. Insieme a centocinquanta cavalieri della Tavola Rotonda, parte alla ricerca del Graal, simbolo della grazia divina e unica speranza di salvezza. Come annunciato dalle profezie, solo due di loro, oltre a Galaad, riusciranno nell’impresa. Dopo lunghe e pericolose avventure, i tre compagni giungono in Oriente nella città di Sarraz, riflesso della Gerusalemme Celeste; un viaggio che simboleggia il ritorno verso la Terra Santa, alle origini del cristianesimo.
La Cerca è un romanzo allegorico, fonte inesauribile di rimandi alle Sacre Scritture e alla mistica cistercense; un “vangelo della cavalleria” scritto per istruire, tramite l’espediente narrativo, la classe dominante del XIII secolo.
Il testo è stato recentemente riportato e tradotto nel libro La Cerca del Santo Graal edito da Rossini Editore a cura di Paolo Spaggiari, laureato in civiltà e lingue straniere moderne, francesista e traduttore di vari testi in lingua d'oïl.
Per iniziare parliamo del panorama letterario riguardante il Graal; quali sono le opere principali?
Il Graal è un elemento celtico trapiantato nell’epica cristiana: il magico calderone dell'abbondanza, presente nel folklore gallese e irlandese, che si trasforma in “cosa santa” nel Perceval di Chrétien de Troyes (1182 c.). In seguito, all’inizio del Duecento, questo motivo letterario viene sviluppato da Robert de Boron che, con il Joseph d’Arimathie, crea la fortunata associazione tra il Graal e il calice usato da Cristo durante l’Ultima Cena. Il Perlesvaus e il ciclo Lancelot-Graal (di cui fa parte anche La Queste del Saint Graal) conservano i nuovi elementi; mentre il Parzival di Eschenbach vede nel Graal una pietra purissima per mezzo della quale la fenice brucia e risorge dalle ceneri.
Perché è importante il romanzo La cerca del Santo Graal?
Credo che sia un’opera ancora poco conosciuta; tutti in qualche modo abbiamo un’idea di cosa sia il Graal, fa parte del nostro immaginario collettivo, ma pochissimi hanno letto quel testo fondamentale della cultura occidentale che è La Cerca del Santo Graal. Esso non è soltanto uno splendido romanzo d’avventura popolato da guerrieri, epiche imprese, demoni e saggi eremiti; oltre il velo letterario, il testo ci offre una sintesi della morale e delle spinte ideologico-spirituali che animavano la società del Duecento. Nella Queste la cristianizzazione del Graal raggiunge il suo apogeo; l’anonimo autore ci lascia un manifesto della cavalleria sacra, costellato dall’esaltazione del rituale eucaristico e da un sottofondo crociato e antiereticale figlio del suo tempo.
Perché l'opera viene definita “vangelo della cavalleria”?
Chi scrive la Cerca lo fa con un chiaro intento: istruire, per mezzo di un romanzo allegorico, la classe dominante del XIII secolo. I monaci sono chiamati a rinnovare la società cristiana, e per farlo individuano nella cavalleria la chiave di questa rivoluzione. Il cavaliere deve liberarsi dalla tracotanza – caratteristica della cavalleria secolare – e farsi umile, divenire servo di Dio per combattere la buona battaglia; deve trasformarsi in miles Christi. Nell’opera, eremiti, preti e monache, istruiscono i cavalieri – chiarendo i loro dubbi – e li aiutano a diventare migliori; ovvero, a diventare cavalieri celesti. L’interpretazione dei misteri legati al Graal e il continuo rimando alle Sacre Scritture danno modo all’autore – probabilmente un cistercense – di veicolare il proprio messaggio al lettore.
Cos’è secondo Lei il Graal? Può avere un collegamento con lo Spirito Santo?
Il Graal rappresenta Dio, la Sua grazia, i Suoi misteri; mentre la Cerca simboleggia il percorso spirituale che l’uomo compie per sanare la frattura con il Padre. Perduti nella Guasta Foresta dell'esistenza ci mettiamo in viaggio nella speranza di ritrovare la “via di casa”. Certamente un collegamento con lo Spirito Santo è possibile notarlo non solo nei parallelismi che il testo ci offre con la Pentecoste, ma anche nella continua presenza di Dio, che attraversa tutto il romanzo per mezzo delle sue ierofanie, le manifestazioni del sacro legate al Santo Graal.
Sappiamo che questo filone letterario è pregno di simbologie. Quali sono quelle più importanti in questo testo?
Credo che il simbolismo più influente nell’opera sia quello legato all’Eucaristia e in particolare al dogma della presenza reale. Oltre agli elementi accomunati al rituale eucaristico, primo fra tutti il Graal – associato al calice usato per officiare la messa –, nel testo troviamo una singolare e potente drammatizzazione della transustanziazione: l’ostia sollevata dal celebrante si fa carne e dal vaso liturgico sorge Cristo sanguinante; il Salvatore in persona si avvicina ai fedeli e li comunica con il Corpus Domini; Egli, infatti, è al tempo stesso sacerdote e sacrificio.
Molto affascinanti sono i nomi legati ai personaggi: Vero Cavaliere, Re Ferito, Re Pescatore; cosa rappresentano queste figure?
Il Vero Cavaliere – Galaad – è la personificazione del modello che l’autore si prefigge per la nuova cavalleria; il cavaliere perfetto, colui che non combatte per vanagloria, ma per la fede e la giustizia, per il Regno di Dio. Il Re Pescatore fa la sua comparsa nel Perceval di Chrétien de Troyes e, da lì in poi, assumerà il significato di custode del Graal. Questa figura è strettamente connessa a quella del Re Ferito – spesso infatti i personaggi coincidono – e si collega a un motivo ricorrente nel ciclo arturiano, quello del Colpo Doloroso: un colpo di spada o di lancia ferisce il re e la sua terra smette di dare frutto; solo l’eroe – nel nostro caso Galaad – potrà salvarlo e con esso salvare la Terra Guasta.
Nel romanzo si parla anche del peccato originale aggiungendo però dei particolari molto importanti. Cosa pensa a riguardo?
Il peccato originale è un tema complesso sul quale spesso si crea confusione. Quello che condividiamo con la caduta dei nostri progenitori non è la colpa, ma la condizione che ne deriva, ovvero l'allontanamento da Dio. Tuttavia, non dobbiamo rassegnarci alla disperazione, il Padre ci offre la possibilità di ritornare a Lui, il Suo desiderio è quello di riaverci. Citando il romanzo, la voce divina dice ad Adamo ed Eva una volta cacciati dall'Eden: «Gente di poca fede, perché vi giudicate morti? Non date nulla per perduto, poiché vi è più vita che morte». La Cerca, in questo passaggio, attinge liberamente ai primi capitoli di Genesi e alla Leggenda della Vera Croce: Eva porta con sé dal Paradiso un rametto da cui crescerà l'Albero della Vita; esso rappresenta in maniera allegorica la croce di Cristo, che con il Suo sacrificio ci ha donato la Salvezza.
Una parte molto importante della storia riguarda il leggendario Seggio Periglioso della famosa Tavola Rotonda.
La Tavola Rotonda – come ci illustra Merlino – con la sua forma rappresenta l'universo, la terra, il cielo, le stelle; potremmo dire che è lo spazio in cui viviamo, il nostro mondo. Per i cavalieri è un luogo di incontro tra pari, dove ognuno gioisce della compagnia dei fratelli d’arme. Essa, però, simboleggia anche la tavola di Cristo, per questo ha un seggio speciale riservato a colui che è guida e maestro dei cavalieri-apostoli: il Seggio Periglioso; nessuno può sedersi su di esso impunemente, chiunque osa occuparlo senza diritto incorre in pericoli mortali.
Qual è, secondo Lei, alla fine il messaggio simbolico di questo testo?
Tutti noi siamo chiamati a partire – lasciando ogni cosa: le nostre paure, le nostre passioni – e incamminarci come pellegrini alla ricerca di Cristo. Il mondo ha bisogno di cambiare, da sempre; la società ha bisogno di evolvere. L'anonimo autore della Queste crede nella necessità di una nuova era – prefigurata da Gioacchino da Fiore – in cui l'uomo raggiungerà la perfezione cristiana e il Regno di Dio sarà realizzato come in cielo, così in terra. La Cerca è un viaggio da compiere in primis dentro di noi, per ritrovare il legame con il divino; e poi, fuori da noi per lottare contro il Male e portare la Luce nel mondo. Non ci sono tesori da disseppellire, terre lontane da esplorare, reliquie da recuperare; il Graal non è un oggetto né un segreto occulto, ma il riflesso di Dio.