Giornalista iscritto all'Albo Nazionale dal 2012
Attualmente redattore del mensile Mistero
rivista dell'omonima trasmissione televisiva di Italia Uno
Per contatti e richiedere la presentazione dei libri mail: g.balena@libero.it
«Faceva sì che tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi ricevessero un marchio sulla mano destra e sulla fronte; e che nessuno potesse comprare o vendere senza avere tale marchio, cioè il nome della bestia o il numero del suo nome. Qui sta la sapienza. Chi ha intelligenza calcoli il numero della bestia: essa rappresenta un nome d’uomo. E tal cifra è seicentosessantasei». Questo versetto tratto da Apocalisse è famoso perché in esso viene citato il famoso numero della bestia ma secondo alcuni potrebbe rivelare scenari futuri ma imminenti rispetto a come potrebbe diventare la nostra società.
Improvvisamente, ma poi neanche troppo, lo sviluppo tecnologico pervasivo e imperante potrebbe fornire gli strumenti idonei per plasmare e per certi versi imporre una società iper-controllata e distopica.
Dal riconoscimento facciale al monitoraggio dei social media fino al tracciamento delle attività digitali sono solo alcuni strumenti spesso sottovalutati ma potentissimi per instaurare forme di controllo e sorveglianza sociale.
Il 2020 sarà ricordato come un anno particolare ma forse non solo per l’avvento e lo sviluppo della pandemia. 2020 è anche la sigla di un progetto del quale si parla poco ma che forse potrà incidere profondamente nella costituzione del prossimo assetto sociale addirittura a livello mondiale.
Si tratta solo di fantasie complottistiche o c’è qualcosa di reale?
Che cos’è ID2020
ID2020 è un progetto nato nel 2015 quando alcune organizzazioni private e pubbliche si sono riunite formando la cosiddetta “Alleanza per l’identità digitale” con l’obiettivo altisonante di migliorare la qualità della vita di ogni essere umano. Il progetto è sostenuto addirittura anche dalle Nazioni Unite ed è stato incorporato negli obiettivi di sviluppo sostenibile proprio della stessa organizzazione mondiale nel 2016.
Nel sito ufficiale del progetto si legge che ID2020 è una sorta di partnership pubblica-privata che vede il coinvolgimento, come detto, oltre dell’ONU anche dei governi nazionali e dei soci fondatori delle maggiori multinazionali mondial che sono anche i più attivi finanziatori.
ID2020 potrebbe portare praticamente all’identificazione digitale di ogni persona del pianeta: un sogno accarezzato da sempre dalle élite mondiali per assicurarsi il controllo globale a livello politico ma soprattutto economico. Per fare questo la strada che si potrebbe intraprendere è quella dell’inserimento di un microchip nel corpo umano che potrebbe contenere tutte le informazioni personali di ogni singolo a livello mondiale.
L’identità digitale non solo prevedrebbe la possibilità di racchiudere tutte le informazioni personali dei cittadini in un microchip sottocutaneo, ma allo stesso tempo consentirebbe anche di somministrare i vaccini sotto forma digitale. Ecco, quindi, che l’emergenza sanitaria si sposerebbe perfettamente con le azioni dell’agenda programmatica del progetto, anzi potrebbe essere la spinta che renderebbe concrete le applicazioni delle misure in esso presenti.
Nello Stato del Texas, negli Stati Uniti, i poveri senzatetto vengono già utilizzati come cavie per la sperimentazione di un microchip proprio nell’ambito del programma operativo ID2020; anche il governo del Bangladesh ha aderito ufficialmente a questa iniziativa in via sperimentale.
L’identità digitale implicherebbe poi la costituzione una sorta di archivio basato su un cloud di documenti medici e di altre informazioni personali accessibili solo con il consenso del proprietario ma disponibili a livello planetario. Il sistema cloud (in italiano “nuvola informatica”) è in sostanza un sistema di erogazione di servizi offerti su richiesta da un fornitore a un cliente finale attraverso la rete internet che permette l'archiviazione, l'elaborazione o la trasmissione di dati a partire da un insieme di risorse preesistenti, configurabili e disponibili in remoto. In altre parole si tratterebbe di digitalizzare le nostre esistenze spostando di fatto online le attività che si svolgono quotidianamente.
Le implicazioni per la privacy sarebbero devastanti e inimmaginabili e comunque preoccupanti dal momento che tutti virtualmente potrebbero essere sottoposti a una vera e propria sorveglianza digitale di massa.
Il microchip consentirebbe, infatti, a chi gestisce l’archivio digitale di tracciare per esempio anche i movimenti. Il grande fratello digitale, sotto la scusa della tutela della salute personale e pubblica, potrebbe sapere in tempo reale dove si trova una persona e cosa sta facendo incrociando i dati della connessione a internet, l’accesso sui social, l’utilizzo dello smartphone e la geolocalizzazione.
I microchip sono delle dimensioni di un chicco di riso e possono essere impiantati nella mano sotto la pelle, tra l'indice e il pollice.
L'impianto dei microchip negli esseri umani è un metodo ormai non più recentissimo e utilizzato per inserire nel corpo umano un dispositivo di identificazione a radiofrequenza a circuiti integrati o un transponder RFID incapsulati in un involucro di vetro. L'impianto sottocutaneo contiene, di solito, un numero identificativo unico che può essere collegato a informazioni contenute su un database esterno, contenente i dati identificativi personali univoci. In futuro potrebbe diventare fattibile il collegamento di tali chip a un sistema di posizionamento satellitare che potrebbe permettere di individuare latitudine, longitudine, velocità, direzione del movimento di persone in ogni posto del mondo.
In Svezia, per esempio, si è già in una fase avanzata nella sperimentazione dell’utilizzo del microchip sottocutaneo: le persone che hanno già provveduto all’innesto sono in grado di passare la propria mano sotto gli scanner per l’accesso ad ambienti di lavoro o per l’utilizzo agevolato e veloce degli elettrodomestici o ancora come mezzo di pagamento per comprare beni e servizi.
La crisi sanitaria e la permanenza del coronavirus potrebbero essere quindi il pretesto perfetto per mettere al bando il contante e spingere verso altre forme di pagamento virtuali come, per esempio, proprio il microchip sottocutaneo.
Un progetto, dunque, che richiama, neanche troppo vagamente, la trama del grande fratello orwelliano e che potrebbe essere virtualmente utilizzato per tracciare qualsiasi cosa: dal conto in banca agli spostamenti, dalla situazione penale fino ad arrivare alla cartella clinica.
Il tracciamento della popolazione
Si legge nel manifesto illustrativo del progetto ID2020: «Oltre un miliardo di persone in tutto il mondo non è in grado di dimostrare la propria identità con alcun mezzo riconosciuto. In quanto tali, sono privi della protezione della legge e non sono in grado di accedere ai servizi di base, partecipare come cittadini o elettori o effettuare transazioni nell’economia moderna. […] Riteniamo che le persone debbano avere il controllo sulle proprie identità digitali, incluso il modo in cui i dati personali vengono raccolti, utilizzati e condivisi. Tutti dovrebbero poter affermare la propria identità oltre i confini istituzionali e nazionali e nel tempo. La privacy, la portabilità e la persistenza sono necessarie affinché l’identità digitale possa potenziare e proteggere significativamente le persone».
Attualmente il modo più fattibile per implementare l’identità digitale è tramite l’utilizzo dello smartphone o, come abbiamo visto, l’impianto di microchip RFID. Il programma andrebbe a sfruttare le operazioni di registrazione delle nascite, nonché delle vaccinazioni già esistenti, per fornire a ogni neonato un’identità digitale portatile collegata biometricamente.
Di grande attualità risulterebbe la funzione vaccinale che sarebbe possibile implementare tramite i cosiddetti “Quantum Dot Tattoos”, ovvero tatuaggi a punti quantici che implicano l’applicazione di microneedle a base di zucchero dissolvibili. Questi sono composti da due parti: il vaccino contro la malattia e dei punti quantici a base di rame fluorescente incorporati all’interno di capsule biocompatibili su scala micron. Quest’ultimi dissolvendosi sotto la pelle rilasciano dei punti quantici i cui schemi possono essere letti in futuro per identificare qual vaccino sia stato somministrato. Secondo una ricerca del team del Mit prodotta dal professor Robert Langer: «il “tatuaggio” invisibile che accompagna il vaccino è un modello costituito da minuscoli punti quantici ossia minuscoli cristalli semiconduttori che riflettono la luce che brillano sotto la luce infrarossa. Un giorno è possibile che questo approccio invisibile possa creare nuove possibilità per l’archiviazione dei dati e le applicazioni vaccinali che potrebbero migliorare il modo in cui viene fornita l’assistenza medica in particolare nei paesi in via di sviluppo».
Sembra che il progetto potrebbe comprendere anche il trattamento di altri dati e l’immagazzinamento digitali di alcune specifiche informazioni tipo la sostituzione dei documenti d’identità o le informazioni bancarie e commerciali.
Al momento anche l’UNICEF è una delle organizzazioni interessate all’identità digitale poiché vorrebbe registrare i bambini alla nascita per un miglior sviluppo sostenibile delle attività operative per l’implementazione dei programmi umanitari.
L’ID (Identità Digitale) potrebbe fornire un documento di identità digitale a oltre un miliardo di persone in tutto il mondo che non hanno modo di avere nemmeno un certificato di nascita o semplicemente dimostrare la propria identità. Senza ID queste persone, prevalentemente donne e bambini in Asia e in Africa, non potrebbero ottenere posizioni sanitari, assistenziali o bancari. Tale porzione della popolazione comprende anche i 60 milioni di rifugiati in tutto il mondo e molte donne vittime della prostituzione coatta la cui mancanza di identità impedirebbe loro di ottenere un aiuto concreto.
L’ID2020, dunque, può essere considerato un programma di aiuto a beneficio di quella parte della popolazione mondiale più debole o potrebbe rappresentare l’inizio di una nuova epoca caratterizzata da una riorganizzazione sociale molto simile a quella descritta nel lungimirante romanzo futuristico 1984 di George Orwell?
Fa riflettere una dichiarazione di David Rockefeller: «Alcuni credono che siamo parte di una congrega segreta che lavora contro gli interessi degli Stati Uniti, caratterizzando me e la mia famiglia come internazionalisti e cospirando con altri nel mondo per costruire una struttura economica e politica più integrata. Se quella è l’accusa, mi dichiaro colpevole e ne sono fiero».
«Immagina se l’oro diventasse piombo quando viene rubato. Se il ladro lo restituisce, torna ad essere d’oro». Questo enigmatico tweet è apparso a marzo del 2019 da un account Twitter dedicato alle citazioni di un personaggio enigmatico conosciuto con il nome di Satoshi Nakamoto. Sebbene fosse una citazione presa da un post del forum BitcoinTalk del 2010 ha rinverdito uno dei misteri più curiosi nell’ambito della recente storia della tecnologia. Chi si nasconde dietro l’identità del misterioso Satoshi Nakamoto?
Si tratta di un personaggio misterioso e al suo nome è strettamente legato la prima criptomoneta creata e quella forse più rappresentativa: Bitcoin. Il software di funzionamento è stato programmato nel 2008 dopo aver scritto un post in un gruppo di discussione dove veniva annunciato proprio l’avvio del progetto. Sul documento che battezza la criptovaluta era presente un solo indirizzo mail (Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.) attivo e utilizzato sin dagli albori del progetto.
Intorno allo pseudonimo di Satoshi Nakamoto si sono fatte varie congetture, ma non si è mai riusciti a identificare con certezza l’identità; addirittura, come abbiamo visto, non si sa nemmeno se si tratta di una singola persona o di un gruppo di persone. Adam Penenberg, un professore della New York University, sostiene che dietro il personaggio misterioso ci sarebbero quattro persone: Neal King, Robertz Pulitano, Vladimir Oksman e Charles Bry.
In giapponese "satoshi" significa "un pensiero chiaro, veloce e saggio". "Naka", invece, può significare "medium", "dentro" o "relazione". "Moto" potrebbe significare "origine" o "fondamento".
Inizialmente in molti hanno pensato che il creatore di Bitcoin fosse Dorian Satoshi Nakamoto, ossia un professore di informatica americano di origine giapponese, ma lo stesso ha negato categoricamente.
Poi i sospetti si sono spostati su Michael Clear e su Vili Lehdonvirta; quest’ultimo in particolare è uno sviluppatore finlandese di giochi (ma anche sociologo ed economista). Anche loro però hanno smentito ufficialmente qualsiasi rapporto con Satoshi Nakamoto.
Nei primi tempi l’utente al quale corrispondeva questo nome rispondeva in maniera attiva sul forum BitcoinTalk; questo fino alla metà del 2010 quando, dopo un periodo di assenza, ha fatto sapere che si stava già dedicando a un altro progetto. Nella scheda di registrazione presso la fondazione P2P risulta essere un maschio sulla quarantina vivente in Giappone, ma tenendo conto degli orari di pubblicazione dei suoi interventi è più probabile che vivesse in America.
Nel dicembre 2015 due articoli d'inchiesta indicavano il nome di Craig Steven Wright, ossia un importante imprenditore australiano. Nel giro di poche ore, stranamente, sono state effettuate perquisizioni nella casa e nell'ufficio di Wright da parte della polizia federale australiana, pur smentendo che ci sia un collegamento diretto con la vicenda del misterioso pseudonimo.
Altri due papabili sono Nick Szabo e Hal Finney. Il primo è un esperto americano di crittografia che già nel 1998 aveva teorizzato il "bit gold", ossia una valuta digitale unanimemente riconosciuta come antenata di Bitcoin. Proprio nel 2008 Szabo scriveva un post in cui rivelava l'intenzione di passare dalla teoria alla pratica creando una criptovaluta realmente utilizzabile. Finney, invece, è stato l'uomo che ha ricevuto la prima transazione in Bitcoin da Satoshi Nakamoto, quindi uno dei primi a essersi interessato al progetto, pertanto secondo alcune indiscrezioni potrebbe aver conosciuto direttamente lo stesso Nakamoto o addirittura aver utilizzato lui stesso quel nome.
Le ipotesi più strane su Satoshi Nakamoto
Nel 2017, dopo una soffiata di un dipendente di SpaceX, è comparsa sul web la notizia che dietro allo pseudonimo si nascondesse Elon Musk, ipotesi poi smentita dallo stesso imprenditore sul suo account Twitter.
Curiosa è poi l’esternazione di Natalia Kaspersky, ex moglie di Evgenij Kasperskij co-fondatrice insieme all’ex marito di Kaspersky Lab e titolare dell’azienda di cybersecurity Infowatch. La notizia assume una valenza particolare visto che proviene proprio da un’esperta in ambito tecnologico. Secondo la Kaspersky, infatti, dietro il creatore di Bitcoin, si celerebbe “un gruppo di crittografi americani” e quindi sarebbe un’invenzione dei servizi segreti statunitensi.
Secondo altri invece dietro Bitcoin si nasconderebbero i servizi segreti russi o cinesi. Tra i sostenitori di questa versione c'è addirittura Roberto Escobar, fratello del narcotrafficante Pablo, anche egli convinto che si tratti di una creazione della Cia. Escobar riferisce inoltre di aver parlato telefonicamente con la persona dei servizi segreti che avrebbe impersonato l’identità e di possedere addirittura la copia del suo passaporto.
Secondo una delle tante leggende in circolazione, sarebbe un nome creato dalle iniziali delle aziende che hanno creato Bitcoin: Sa (Samsung) toshi (Toshiba) Naka (Nakamichi) moto (Motorola).
Sembrerebbe che l’American National Security Agency (NSA), ossia l’agenzia americana che si occupa della sicurezza nazionale, ha scoperto l’identità di Satoshi Nakamoto il 26 agosto 2017, ma non l’ha mai rivelato pubblicamente. Secondo una fonte anonima e interna alla stessa agenzia: «Prendendo i testi di Satoshi e trovando le 50 parole più comuni, l’NSA è stato in grado di suddividere il suo testo in 5.000 parole e analizzare ciascuna per trovare la frequenza di quelle 50 parole. In questo modo sarebbe stato possibile ottenere un identificatore unico di 50 numeri per ogni pezzo. L’NSA ha quindi collocato ciascuno di questi numeri in uno spazio di 50 dimensioni e li ha appiattiti in un piano utilizzando l’analisi dei componenti principali. Il risultato è una “impronta digitale” per qualsiasi cosa scritta da Satoshi che potrebbe essere facilmente paragonabile a qualsiasi altro stile di scrittura».
Che cosa sappiamo oggi
Sta di fatto che al netto di tutto Satoshi Nakamoto dovrebbe possedere attualmente un tesoretto consistente. Un esperto argentino, Sergio Demian Lerner, ha provato a stimarla: Nakamoto avrebbe generato 980.000 Bitcoin. Se li avesse ancora tutti nel proprio portafogli digitale equivarrebbero oggi a circa 6,3 miliardi di dollari, abbastanza per entrare nella lista dei 250 uomini più ricchi del pianeta.
Chiunque o qualsiasi cosa sia, Satoshi Nakamoto è stato addirittura candidato al Nobel. Nel 2015, infatti, Bhagwan Chowdhry, professore di finanza della University of California, ha fatto il suo nome all'Accademia reale delle Scienze svedese. Non se ne è fatto poi nulla, anche perché si sarebbe presentato il problema relativamente a chi avrebbe ritirato il premio.
L’affascinante mistero riguardante l’identità di Satoshi Nakamoto è stato ripreso anche dallo scrittore inglese Andrew O’Hagan che ha cercato di mettersi sulle tracce di questo personaggio e ha pubblicato i risultati della sua indagine nel libro “La vita segreta: tre storie vere dell’era digitale”. Nel volume, oltre al mistero di Nakamoto, l’autore analizza anche il fenomeno del Dark Web e il controverso caso di Julian Assange.
Nonostante il grande clamore intorno al mondo Bitcoin e in particolare in merito al misterioso nome del fondatore, attualmente tutto il progetto è portato avanti da quattro persone:
Gavin Andresen: ricercatore capo del consiglio del Bitcoin Foundation (dalla quale è l’unico che riceve una remunerazione) ed è l’erede designato dal fondatore Satoshi Nakamoto;
Jeff Garzik: ingegnere e sviluppatore del sistema Bitcoin con grandi conoscenze in ambito matematico;
Mike Hearn: ingegnere della società del famoso motore di ricerca Google ma molto influente nella comunità Bitcoin; il fatto che lavori presso il maggiore colosso tra i motori di ricerca ovviamente confermerebbe che il progetto in realtà non può essere considerato puramente spontaneo e nato dal basso;
Matt Corallo: uno dei membri del team di sviluppo e da sempre dietro le quinte;
Pieter Wiuelle: il responsabile sviluppatore del codice sorgente del sistema.
Cosa si nasconde dietro questo nome e soprattutto dietro al progetto Bitcoin? Una rivoluzione monetaria dal basso o un progetto pilotato dai soliti poteri forti?
Bitcoin e Libra: le monete del futuro
«Sappiate che la gente era scettica anche quando la carta moneta ha spodestato l’oro». L’affermazione provocatoria di Lloyd Blankfein, ceo di Goldman Sachs, fa riflettere e non poco. Ma cosa dovrebbe soppiantare i soldi ai quali ancora tanto siamo affezionati? L’irruzione di Internet nell’evoluzione tecnologica galoppante ha rivoluzionato totalmente numerosi aspetti della vita quotidiana e in particolare sta riscrivendo anche un nuovo paradigma di riferimento della moneta che in prima battuta potremmo definire “elettronica”. Come si può ben intuire il connubio tra Internet e moneta elettronica di per sé potrebbe sembrare a prima vista addirittura scabroso, questo perché l’utilizzo delle forme di pagamento online potrebbe diffondersi capillarmente e avere successo ovviamente solo se è protetto e garantito.
La rete rende tutto veloce e accessibile, in altri termini la parola d’ordine è l’immediatezza. Per fare solo alcuni esempi: quando si spedisce una mail arriva istantaneamente, allo stesso modo possiamo usufruire di un video o di una canzone in pochissimi secondi digitando semplicemente il titolo. Se ci pensiamo bene, però, la stessa cosa non accade quando si sparla di pagamenti online. Il trasferimento di denaro, per esempio facendo un bonifico online, rende di fatto disponibili i soldi presso il destinatario dopo non meno di tre giorni lavorativi. Questo essenzialmente perché la transazione passa al vaglio di un intermediario bancario e quindi segue le tempistiche proprie degli istituti di credito pur transitando attraverso la rete che rende tutto immediato. Inoltre spesso paghiamo anche una commissione aggiuntiva. Allora quali sono le novità dirompenti introdotte da quelle che possiamo definire in maniera più specifica criptovalute?
Cosa sono le criptovalute
Già da qualche anno anche i cosiddetti poteri forti sono stati costretti a esprimersi su quello che stava diventando un fenomeno non solo relegato alla rete ma ormai sempre più diffuso. In una nota ufficiale del 30 gennaio 2015 la Banca d’Italia si esprimeva sulle valute virtuali a testimonianza del fatto che il fenomeno ormai era di pubblico dominio e iniziava a interessare anche le istituzioni: «Le cosiddette valute virtuali sono rappresentazioni digitali di valore, utilizzate come mezzo di scambio o detenute a scopo di investimento, che possono essere trasferite, archiviate e negoziate elettronicamente. Alcuni esempi sono Bitcoin, LiteCoin, Ripple. Create da soggetti privati che operano sul web, le valute virtuali non devono essere confuse con i tradizionali strumenti di pagamento elettronici (carte di debito, carte di credito, bonifici bancari, carte prepagate e altri strumenti di moneta elettronica, ecc.). Le valute virtuali differiscono dalle piattaforme elettroniche finalizzate esclusivamente a favorire transazioni assimilabili a forme di baratto. Esse non rappresentano in forma digitale le comuni valute a corso legale (euro, dollaro, ecc.); non sono emesse o garantite da una banca centrale o da un’autorità pubblica e generalmente non sono regolamentate. Le valute virtuali non hanno corso legale e pertanto non devono per legge essere obbligatoriamente accettate per l’estinzione delle obbligazioni pecuniarie, ma possono essere utilizzate per acquistare beni o servizi solo se il venditore è disponibile ad accettarle».
Come possiamo dunque notare una prima caratteristica distintiva delle criptovalute rispetto ai pagamenti online è l’immediatezza poiché le monete digitali permettono l’istantanea esecuzione della transazione. Un’altra caratteristica rilevante è che questa nuova forma di moneta risente di riflesso della prerogativa intrinseca principale della rete: è svincolata rispetto a qualsiasi forma di verticismo. Le criptovalute, infatti, non sono collegate, come nel caso delle monete classiche, a un’istituzione che ne garantisce il valore, ma lo stesso è determinato solo dalla domanda e dall’offerta e dalla libera circolazione.
La creazione della nuova moneta si formalizza attraverso un’operazione tecnica definita “mining” ossia tradotto letteralmente significa “minare” cioè cavare ed estrarre il valore stesso della moneta tramite operazioni online. Questo processo determina la generazione di record di transazioni collegati a una specie di registro pubblico che si basa su complessi calcoli computazionali; ogni nuovo blocco creato deve essere controllato, validato e crittografato. Ecco perché si parla di criptomonete. La generazione, la registrazione e i trasferimenti avvengono tramite un database gratuito, distribuito, open source e accessibile a tutti garantito dal sistema definito Blockchain.
Le dinamiche che si stanno sviluppando in questi anni in tale settore sono complesse. Le criptovalute nascono e s’impongono, un po’ in generale come la stessa rete, in maniera spontanea e apparentemente senza l’input di poteri centrali e istituzionalizzati. Ora c’è da chiedersi: ma se nascono dal basso sganciate dai poteri forti ma potrebbero essere sfruttate proprio da questi per la realizzazione dei loro disegni millenari egemonici, perché le banche e i centri finanziari di potere hanno paura e in qualche modo le osteggiano? La risposta, forse, è perché essenzialmente questa è una fase di transizione dove evidentemente diversi soggetti stanno giocando la partita per la definizione degli assetti futuri in seno al potere economico-finanziario globale. Tale partita è difficile e complessa perché questa volta la rivoluzione parte realmente dal basso e risulta più difficile, ma non impossibile, concentrare il potere nelle mani di pochi.
L’esempio di Bitcoin
Le criptomonete potrebbero sembrare un’invenzione relativamente recente, ma in realtà affondano le radici ancor prima addirittura dello sviluppo e diffusione di Internet.
In particolare, per esempio, è possibile far riferimento al lavoro di Friedrich Hayek del 1976, “La denazionalizzazione della moneta”, nel quale veniva prefigurata la possibilità di dare ai privati il potere di emettere moneta fiduciaria, anche senza un legame intrinseco con l’oro in corrispettivo.
Fin dal 1982 erano state poste le basi teoriche per il cosiddetto “cash digitale” da parte di David Chaum in uno storico articolo dal titolo “Blind signatures for untraceable payments” (letteralmente “Firme cieche per pagamenti non tracciabili“).
Nel 1999, poi, il Premio Nobel Milton Friedman preconizzava una moneta digitale che fosse scambiata su Internet in modo tale che, come affermava l’economista, «io possa darti un biglietto da 20 dollari e tu prenderlo senza sapere chi io sia».
La nascita di Bitcoin è quindi la concretizzazione di un lungo percorso teorico che ha portato poi alla creazione della prima criptovaluta.
Bitcoin s’inserisce all’interno della cultura digitale e incarna in particolare un aspetto portante di essa: si tratta in altre parole del concetto dell’innovazione senza permesso. Lo stesso principio che governa la rete: non c’è bisogno di chiedere il permesso a nessuno se si vuole pubblicare qualcosa su Internet. Allo stesso modo con Bitcoin non c’è bisogno di chiedere il permesso a nessuno per utilizzarli, ma soprattutto sono nati spontaneamente proprio come la rete. È infatti possibile scrivere il codice sorgente ed entrare a far parte di una rete finanziaria internazionale in grado di eseguire le istruzioni dello stesso codice e mettere in contatto milioni di utenti. Non c’è bisogno di chiedere il permesso neanche per effettuare i pagamenti poiché non c’è un ente terzo che sovrasta la struttura.
Il 3 gennaio 2009 è stato creato il primo blocco di Bitcoin, denominato “Genesis Block”. In quell’occasione sono stati creati 50 Bitcoin e a oggi sono rimasti accreditati e non sono stati più toccati. Il 22 maggio 2010 c’è stata invece la prima transazione tra terzi utilizzando questo sistema: sono state acquistate un paio di pizze “Papa Joe’s” per un controvalore di dieci mila Bitcoin. Sempre nel 2010, esattamente nel mese di febbraio, sono stati aperti i primi exchange per la commercializzazione di Bitcoin.
La nascita di Bitcoin non è molto chiara e potrebbe far pensare allo zampino sin dall’inizio dei poteri forti che come spesso accade pilotano i cambiamenti. Un indizio in tale direzione potrebbe venire per esempio dalla data di pubblicazione del cosiddetto white paper. Il documento costitutivo, infatti, è stato reso pubblico il 31 ottobre 2018. Tale data, comunemente associata alla festa di Halloween, ha in realtà una valenza esoterica non di poco conto.
Oltre Bitcoin
Bitcoin ha aperto una nuova strada e dal momento della sua creazione a ruota sono state create numerose altre monete con caratteristiche similari. In particolare negli ultimi mesi si parla della creazione, ormai prossima, di Libra ossia la criptomoneta di Facebook. Avere tutto senza uscire da Facebook: questo è il sogno proibito di Mark Zuckerberg il quale sarebbe al lavoro per creare una criptovaluta che consentirà agli utenti di trasferire denaro utilizzando le app di messaggistica WhatsApp e Messenger. «Credo che le persone debbano potersi scambiare denaro così facilmente come mandano una foto» ha dichiarato il padre di Facebook, entrando di fatto apertamente nel mondo delle criptovalute: un sogno che accarezzava sin dal 2014.
A differenza, però, delle più note Bitcoin ed Ethereum, questa criptovaluta dovrebbe essere ancorata al dollaro statunitense e a un paniere di monete reali per ridurre al minimo la volatilità. Il team sarebbe guidato da David Marcus, ex capo di PayPal e Facebook Messenger; il progetto dovrebbe vedere la luce nel 2020 e inizialmente in maniera sperimentale solo in India.
In un primo momento erano state invitate le più influenti multinazionali, ma dal progetto stranamente e senza troppe spiegazioni si sono già defilati i colossi mondiali dei pagamenti, da Mastercard a Visa, da PayPal a Stripe. Intanto i 21 membri rimasti, tra cui Uber, Lyft, Spotify, Vodafone e Iliad, hanno firmato lo statuto per la creazione della Libra Association.
La criptovaluta, infatti, sarà gestita da questa organizzazione indipendente e senza scopro di lucro con sede a Ginevra. Risulta già in prima battuta significativo il fatto che la sede sia proprio in Svizzera, nazione questa da sempre centrale nell’ambito del potere economico-finanziario imperante.
La nuova criptovaluta sarà usata principalmente per scambiare denaro e fare acquisti attraverso WhatsApp, Messenger e Instagram (che dovrebbero unificarsi proprio per strutturare al meglio il progetto), tutte piattaforme afferenti proprio a Mark Zuckerberg. La moneta proposta da Facebook dovrebbe avere un valore complessivo di 19 miliardi di dollari e una singola Libra dovrebbe valere 1,05 dollari.
Molto probabilmente la nuova moneta potrebbe essere utilizzata anche come una sorta di tessera fedeltà: gli utenti potrebbero ricevere piccoli compensi per la visione delle pubblicità e allo stesso tempo i negozi affiliati potrebbero essere ricompensati con la stessa moneta per avere più pubblicità.
In altre parole, la mossa della cordata capitanata da Facebook è astuta perché non entra nell’ambito del sistema bancario classico che sarebbe stato troppo limitante a causa delle numerose restrizioni, ma punta in una direzione nuova e poco regolamentata sfidando però in maniera decisa proprio i colossi bancari sul terreno delle loro attività più importanti ovvero i pagamenti e in particolare quelli online.
Il sogno proibito delle criptovalute dovrà dunque fare i conti con l’establishment della finanza ancorata di fatto ancora alle monete tradizionali: chi vincerà la nuova partita all’ombra del Nuovo Ordine Mondiale?
Come afferma John Mcafee, fondatore dell’omonimo colosso informatico: «Non puoi fermare cose come Bitcoin, sarà ovunque e il mondo dovrà riadattarsi. I governi del mondo dovranno riadattarsi».