Giornalista iscritto all'Albo Nazionale dal 2012
Attualmente redattore del mensile Mistero
rivista dell'omonima trasmissione televisiva di Italia Uno
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«Da dove proviene l'ordine e la bellezza che vediamo nel mondo?» La domanda per eccellenza, quella che ogni essere umano si è fatto almeno una sola volta nella vita è la stessa che ha accompagnato sicuramente l’intera esistenza di colui che può essere considerato il padre della scienza moderna: sir Isaac Newton. Uomo di scienza, ma soprattutto ideatore e scopritore.
Le scoperte scientifiche più importanti avvengo quasi sempre per caso. Quando la mela cadendo dall’albero colpiva la testa di Newton nasceva non solo lo spunto per la teoria della gravità dei corpi, ma soprattutto si apriva la strada all'osservazione empirica e scientifica della realtà. Nasceva in altre parole la scienza moderna: un nuovo metodo rigoroso per assecondare l’atavica curiosità dell’uomo sempre alla ricerca di risposte certe e per interpretare, citando Newton, la “bellezza che vediamo del mondo”.
Chi era Newton
Isaac Newton nacque a Woolsthorpe-by-Colsterworth in Inghilterra il 25 dicembre 1642 in una famiglia di allevatori. Suo padre, anch'egli di nome Isaac, morì tre mesi prima della sua nascita. Quando il piccolo Isaac aveva soli tre anni, sua madre si risposò, lasciandolo alle cure dei nonni materni. Furono anni molto infelici che segnarono l’infanzia: odiava il suo patrigno e pare che una volta sia giunto addirittura a minacciare di incendiare la sua casa. Una personalità complessa, come tutte le grandi menti. Fin da giovanissimo si appassionò allo studio e alla ricerca scientifica. Contribuì in maniera importate agli studi della meccanica classica grazie all’elaborazione delle leggi del moto che lo portarono all’enunciazione della legge di gravitazione universale. Con i suoi studi diede un grande impulso alla teoria eliocentrica. Sviluppò e perfezionò, inoltre, il calcolo matematico differenziale. Fu il primo, tra le altre cose, a dimostrare che la luce bianca era composta dalla somma in frequenza di tutti gli altri colori e con circa due secoli di anticipo enunciò la teoria corpuscolare della luce che venne poi confermata da Albert Einstein solo nel 1905. Il suo impegno in questo ambito, per esempio, si può comprendere meglio con un piccolo aneddoto di un particolare esperimento che condusse su se stesso: avendo intuito che la visualizzazione del coloro nell’occhio umano fosse provocato da un meccanismo di pressione sullo stesso, egli premette un ago da calza intorno al suo occhio fino a quando poté dare dei colpetti al retro dello stesso, notando come poi riferì "cerchi bianchi, scuri e colorati fintanto che continuava ad agitarlo".
Newton fu anche un membro del Parlamento inglese e nel 1703 divenne presidente della Royal Society e un associato dell’Académie des Sciences. Morì a Londra il 20 marzo 1727 all'età di 84 anni e fu sepolto nell'Abbazia di Westminster.
A causa del suo carattere solitario e asociale, si è detto che potesse soffrire di una forma di autismo. In realtà spesso semplicemente scontroso e litigioso. Si dice che Newton abbia riso una sola volta in vita sua: quando uno studente gli chiese se valesse la pena studiare gli Elementi di Euclide.
Newton fu tutto questo, ma non solo: fu anche filosofo, teologo e alchimista. Aspetti questi che spesso passano in secondo piano, messi in ombra dalla monumentalità scientifica dei suoi studi.
Newton e l’alchimia
Newton dedicò molto tempo allo studio dell'alchimia, in un'epoca in cui le conoscenze della chimica erano agli albori, cercando di approfondire le caratteristiche e le peculiarità delle sostanze con particolare riferimento agli studi ermetici tradizionali. Il famoso economista John Maynard Keynes acquisì molti dei suoi scritti proprio sull'alchimia e dichiarò: «Newton non fu il primo dell'età della ragione: fu l'ultimo dei maghi».
Le sue ricerche in questo ambito in particolare furono dedicate al suo metallo prediletto ossia il mercurio. I suoi frequenti esaurimenti nervosi e la causa di alcuni suoi eccessi caratteriali e umorali potrebbero essere riconducibili ai sintomi psichici e neurologici tipici proprio dell'avvelenamento da mercurio o, secondo altri, a un disturbo bipolare.
L'apice della riflessione alchemica di Newton fu raggiunta con il saggio intitolato “Praxis” del 1693 che comunque non fu mai pubblicato né divulgato adeguatamente.
La maggior parte dei manoscritti dove Newton parlava esplicitamente del suo interesse nei confronti dell’alchimia devono essere ancora studiati e approfonditi per una duplice ragione: da un lato sono di difficile interpretazione perché sono scritti utilizzando un linguaggio e una simbologia segreta, dall’altro perché lo stesso scienziato era molto prudente nel divulgare le sue scoperte anche perché all’epoca l’alchimia era considerata una scienza di confine.
Newton era convinto che sia le sacre scritture sia gli antichi testi alchemici contenessero "verità" nascoste celate sotto forma di linguaggio esoterico.
A partire dal 1696 si trasferì a Londra per dirigere la Zecca dello Stato. Poco prima di lasciare Cambridge aveva ricevuto un misterioso personaggio con cui aveva discusso di un particolare procedimento alchemico messo a punto da un noto alchimista dell’epoca nel quale veniva utilizzato il vetriolo.
Sappiamo inoltre che Newton trasportò a Londra non solo la sua biblioteca ma anche parte della sua attrezzatura sperimentale utilizzata per poter compiere i suoi esperimenti alchemici.
Nel 1727, poche settimane prima di morire, bruciò con l'aiuto del nipote John Conduitt molti documenti mentre si trovava nella sua casa londinese di Leichester Field. Che cosa riguardavano questi documenti? Quasi sicuramente documenti e studi riservati e molto probabilmente anche ricerche nell’ambito dell’alchimia.
Newton e la religione
Un altro aspetto particolare e poco noto di Newton è quello riguardante le sue idee religiose e filosofiche che a differenza delle importanti scoperte scientifiche mantenne riservate e segrete. In ambito filosofico il suo pensiero era molto affine al pitagorismo, al neoplatonismo e al neostoricismo.
Lo scienziato inglese si interessò inoltre molto anche di religione. Scrisse numerosi opuscoli sulla interpretazione letterale della Bibbia. Credeva che in vari punti il testo fosse stato forzato e falsificato e si adoperò per cercare di trovare il significato originale. In particolare in “An Historical Account of Two Notable Corruptions of Scripture”, pubblicato postumo la prima volta nel 1754, prese in esame tutte le prove testuali ottenibili da fonti antiche su due passi della Bibbia: I Giovanni 5:7 e I Timoteo 3:16. Il suo intento era quello di dimostrare l'inesistenza scritturale della dottrina trinitaria.
Scrisse in una lettera del 10 dicembre 1682 a Richard Bentley: «Non credo che ciò [l'Universo] si possa spiegare solo con cause naturali, e sono costretto a imputarlo alla saggezza e all'ingegnosità di un essere intelligente».
La maggior parte degli studi religiosi però furono indirizzati sull’ultimo libro della Bibbia, quello che da sempre ha affascinato molti studiosi. Nel “Trattato sull'Apocalisse” tentò infatti di applicare il metodo scientifico deducendo assiomi e regole uniformi utili all'interpretazione. In questo testo sosteneva che l'oscurità e impenetrabilità dei testi fosse nei piani di Dio il quale all'avvicinarsi del tempo apocalittico avrebbe svelato la chiave interpretativa giusta: «E se Dio fu così adirato con gli Ebrei perché non avevano esaminato più diligentemente le profezie che egli aveva dato loro per riconoscere Cristo, perché dovremmo pensare che ci scuserà se non esamineremo le profezie che ci ha dato per riconoscere l'Anticristo? Poiché certamente aderire all'Anticristo deve essere per i cristiani un errore tanto pericoloso e tanto facile quanto lo fu per gli Ebrei rifiutare Cristo. E perciò è tanto nostro dovere sforzarci di essere in grado di riconoscerlo, noi che possiamo evitarlo, quanto lo fu il loro di riconoscere Cristo che potevano seguire».
In un manoscritto redatto nel 1704 nel quale descriveva i suoi tentativi di estrarre informazioni scientifiche dalla Bibbia, stimò che la fine del mondo sarebbe avvenuta nell'anno 2060. Questo calcolo si basava sulla profezia di Daniele, applicando ancora una volta il metodo scientifico: calcolò, infatti, che la seconda venuta di Cristo si sarebbe verifica non prima del 2060, vale dire 1.260 anni dopo l'incoronazione di Carlo Magno. Nel manoscritto comunque lo stesso scienziato precisò che: «non per affermare quando sarà il tempo della fine, ma per porre fine alle incaute congetture di uomini fantasiosi che frequentemente predicono il tempo della fine e così facendo gettano nel discredito le sacre profezie tanto sovente quanto falliscono le loro predizioni».
Gli studi escatologici pare avessero su di lui una grande fascino, infatti in cinquant’anni di attività come professore di Cambridge scrisse più di 4.500 pagine sul tema delle profezie bibliche.
É evidente che oltre lo studioso rivoluzionario che tutti conosciamo si celava un personaggio tutto ancora da scoprire, come si può intuire dalle sue stesse parole: «Non so come apparirò al mondo. Mi sembra soltanto di essere stato un bambino che gioca sulla spiaggia, e di essermi divertito a trovare ogni tanto un sasso o una conchiglia più bella del solito, mentre l'oceano della verità giaceva insondato davanti a me».