Giornalista iscritto all'Albo Nazionale dal 2012
Attualmente redattore del mensile Mistero
rivista dell'omonima trasmissione televisiva di Italia Uno
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“Buon cammino”. Con questa semplice frase si salutano centinaia di volte le persone che si mettono in cammino. Buon umore, zaino in spalla e tanta strada da fare nella maggior parte dei casi a piedi, ma anche in bici o a cavallo.
Il Cammino di Santiago di Compostela è il percorso che i pellegrini di tutto il mondo, fin dal Medioevo, intraprendono attraversando la Francia e la Spagna, per giungere al santuario situato all’estremo nord della penisola iberica, dove è custodita la tomba dell'Apostolo Giacomo il Maggiore.
Si tratta certamente del pellegrinaggio più importante della cristianità, infatti le strade francesi e spagnole, parti integranti dell'itinerario, sono state dichiarate “Patrimonio dell'umanità” dall'UNESCO.
Il simbolo per antonomasia che accompagna i viandanti nella loro fatica è la conchiglia di Santiago, denominata anche “vieiras”; nei secoli scorsi si utilizzava per accreditare i pellegrini che arrivavano a Santiago. Sin dall'antichità la conchiglia indicava metaforicamente la nascita, la vita e la purificazione dello spirito; la sua raffigurazione si ritrova negli affreschi di Pompei e nell’opera “La Venere” di Botticelli. La conchiglia, in particolare con riferimento al suo contenuto, rappresenta anche il basilare nutrimento delle popolazioni costiere. Nella tradizione cristiana, poi, è considerata, in riferimento al guscio, il simbolo della tomba che racchiude il corpo del defunto, dunque, legato al concetto della morte. L'inizio e la fine. Insomma, la vita intesa proprio come un lungo cammino, con un inizio e una fine.
“Il Cammino di Santiago, dunque, solo in apparenza potrebbe essere considerato un fenomeno di costume, ma in realtà rappresenta un’esperienza unica e personale”. È di questo avviso Rosario Recchia, quasi quarant’anni, originario di Ferrandina, un piccolo centro in provincia di Matera. Quest’anno è stato uno degli oltre duecentomila pellegrini che hanno affrontato e terminato il cammino di Santiago. Partenza da Saint Jeau Pied de Port e oltre ottocento chilometri percorsi in trenta tappe, seguendo il percorso più lungo dal versante francese e attraversando tutta la Spagna dai Pirenei all’oceano; un viaggio lento ma affascinante che ha toccato le città di Pamplona, Logroňo, Burgos e Leon, ma soprattutto una miriade di piccoli centri.
Come nasce l’idea di intraprendere il Cammino di Santiago?
Parecchie persone affrontano il cammino di Santiago come semplici turisti o come una prova di trekking, anche se ovviamente la spinta e la valenza principale resta sempre quella religiosa. Magari fanno solo il percorso più breve, quello di soli cento chilometri.
Nel mio caso, invece, ho deciso di affrontare questa prova esclusivamente per un motivo religioso e allo stesso tempo prettamente personale.
Esattamente dieci anni fa le condizioni di salute di mio padre si aggravarono in seguito a una grave forma di cirrosi epatica a tal punto che i medici ormai gli diedero solo poche ore di vita; in quel momento di disperazione e profonda tristezza mi recai a pregare nella piccola cappella dell’ospedale dove era ricoverato mio padre; il giorno successivo, quando ormai ero preparato al peggio ricevetti, invece, una telefonata dai medici che avevano in cura mio padre che mi comunicarono, con grande stupore anche da parte loro, che miracolosamente mio padre si era ripreso; nei giorni successivi le sue condizioni di salute migliorarono progressivamente e in maniera decisa fino alla completa guarigione. Mio padre è poi vissuto in buona salute per altri nove anni. Fu proprio in quel momento che feci una promessa a me stesso e a Dio: non sapevo ovviamente quando mio padre sarebbe morto, ma a un anno esatto da quella data sarei partito per affrontare il cammino di Santiago. Così è stato. Sono passati molti anni, ma non ho mai dimenticato quella promessa che avevo fatto.
Come immaginavi questa avventura prima di partire?
Immaginavo ovviamente tutta la strada da fare e temevo la fatica che si sarebbe accumulata inesorabilmente tappa dopo tappa; pensavo alle difficoltà che avrei potuto incontrare durante il tragitto, in particolare per l’alloggio e per il cibo. Inizialmente addirittura avevo in mente di accamparmi con la tenda. La promessa fatta e lo spirito di avventura, però, sono stati due elementi fondamentali; mi piaceva fantasticare sui posti che avrei visitato e questo aspetto per così dire “turistico” del viaggio stava prendendo il sopravvento nei miei pensieri.
Il cammino di Santiago, però, è un’esperienza unica, profonda, magica e misteriosa; già dopo le prime tappe mi sono reso conto che tutto quello che avevo immaginato nei giorni precedenti alla mia partenza era stato spazzato via inesorabilmente e sostituito da una dimensione più intima, mistica e di profonda riflessione.
Da subito l’elemento fondamentale è diventata la fede, come concetto ampio e dai contorni sfumati, declinata in mille modi nella fatica e nei pensieri dei tanti pellegrini in cammino.
Come ti sei preparato?
La mia preparazione è stata molto lunga: è durata circa quattro anni. In particolare ho comprato tutti i libri che trattavano questo argomento e ho visto i film e i documentari. In particolare ho letto con piacere e ho approfondito lo studio dei libri “La via lattea” di Piergiorgio Odifreddi e Sergio Valzania e “Vado a fare due passi” di Hape Kerkeling. In questi testi oltre ad apprendere informazioni tecniche necessarie per affrontare le varie tappe, ho trovato molti suggerimenti utili per l’approccio psicologico, fondamentale per chi si avvicina a questa prova.
Quali sono stati i pensieri che ti hanno accompagnato, invece, lungo il percorso mentre camminavi?
I pensieri che si affollano nella mente sono moltissimi e ovviamente lungo il cammino c’è una naturale e allo stesso tempo straordinaria propensione a pensare. Nei primi giorni si pensa soprattutto ai segnali da seguire per non perdere la strada; nei giorni successivi, invece, quando ormai hai acquisito una certa dimestichezza con le indicazioni i pensieri che mi hanno accompagnato lungo il tragitto sono stati di varia natura. Sono rimasto sorpreso nel constatare che la mente va a ripescare, senza un motivo apparente, ricordi vecchissimi che avevi quasi rimosso. Ho scoperto, però, che fa parte dell’analisi interiore che stai maturando. Sei in cammino soprattutto verso te stesso.
La bellezza del cammino, infatti, è quella di farti riallacciare il contatto con te stesso e necessariamente sei costretto a fare un’accurata analisi della vita che hai condotto fino a quel momento e come avresti voluto che fosse. Ho capito più cose di me stesso in un mese che in molti anni di vita. Il cammino è un viaggio nel viaggio. Un’esperienza straordinaria dove può succedere di tutto.
Raccontaci qualche aneddoto particolare che ti è capitato lungo il percorso.
Un giorno sono partito alle prime luci dell’alba e tutte le attività commerciali del piccolo paese dove mi ero fermato la sera precedente erano ancora chiuse, così non ho potuto fare la solita colazione abbondante necessaria per affrontare bene la tappa giornaliera. Sono partito lo stesso, ma a metà mattinata ero molto stanco e avevo fame. Non riuscivo più a camminare, così ho deciso di fermarmi per riposare un po’ e recuperare le forze. Mi trovavo in una radura e non si vedeva niente all’orizzonte, solo una distesa sterminata di campi incolti; mi sono seduto su una pietra e ho chiuso gli occhi. Poco dopo mi sono destato perché ho sentito un rumore; ho aperto gli occhi e ho visto un contadino che passava con un cesto. Mi ha rifocillato offrendomi un bicchiere di vino, un po’ di pane e alcune fette di formaggio. Ancora oggi ripensando a questa scena non riesco davvero a capire da dove sia sbucato quel contadino perché la zona era davvero deserta. Ecco questo è il Cammino di Santiago.
Che tipo di rapporto si instaura con le persone che fanno la tua stessa esperienza?
Questo è uno degli aspetti, a mio parere, più importante: riscoprire e valorizzare il rapporto con gli altri. Ti rendi conto che pur nella solitudine dei tuoi passi non sei mai solo. Quasi automaticamente si instaura un rapporto amichevole con tutti i pellegrini che incontri; fai un pezzo di strada da solo e poi li rincontri durante il percorso. La cosa straordinaria è che ci si aiuta vicendevolmente. Più volte mi è capito che persone conosciute da pochi minuti mi abbiano offerto da mangiare e mi abbiano dato dei soldi quando sono rimasto senza. C’è un clima di solidarietà e rispetto; la fede e la religiosità diventano elementi vitali e tangibili. Donare e ricevere diventano azioni quotidiane normali e quasi necessarie.
Io, per esempio, sono partito con uno zaino di oltre dieci chili; lungo il percorso ho donato molti oggetti che avevo a chi in quel momento aveva bisogno con grande piacere e con una naturalezza che mi ha sorpreso. Sono immagini e sensazioni che ti cambiano realmente e che porterò per sempre dentro di me.
Qual è l’immagine più bella che ti porterai dentro di questa esperienza?
Sono davvero tante. Le facce dei tanti pellegrini che ho incontrato. Persone anziane, giovani, malati. Ho visto anche persone sulla sedia a rotella che con passione e dedizione sono arrivate fino alla fine.
C’è un senso estremo di sacralità poi nel vedere lungo il percorso le croci che indicano le persone morte proprio mentre affrontavano il cammino.
Le tappe giornaliere, poi, ti fanno assaporare il contatto vero con la natura e si alternano dei paesaggi davvero incantevoli. Un’immagine, però, in particolare forse riassume il senso di questa avventura: il muro della cattedrale di Burgos dove ho visto una fila interminabile e multicolorata di zaini dei pellegrini affilati per terra. Quella immagine mi sovviene spesso alla mente: indica la diversità che caratterizza ogni persona, ma allo stesso tempo anche la condivisione del cammino e la volontà di arrivare alla fine. Un fotogramma molto bello scolpito nella memoria; in particolare a me ha dato la forza per continuare con una straordinaria e rinnovata determinazione, proprio quando la fatica iniziava a farsi sentire e pensavo di non farcela.
Cosa si prova quando finalmente si intravedono da lontano le guglie della cattedrale di Santiago?
Una grande soddisfazione, ma anche sentimenti contrastanti. Solo allora ti rendi conti dell’importanza del percorso che hai fatto e quasi ti mancano i sentieri che hai percorso.
La cosa più bella è assistere alla messa con il caratteristico “Botafumeiro” ossia l’enorme incensiere utilizzato per purificare l'aria della Cattedrale di Santiago quando è piena di pellegrini. Misura 160 centimetri e pesa 68 chili (100 chili quando è carico di carbone e incenso); sono necessari otto uomini per muoverlo e lanciato lungo la navata centrale raggiunge addirittura una velocità di 68 km orari.
Io personalmente ho pensato a mio padre e alla promessa che avevo fatto. Quando sono entrato in chiesa e ho abbracciato la statua di San Giacomo, come tradizione vuole, mi sono profondamente emozionato, come non mi succedeva da tanto tempo.
Alla fine, in sostanza, come ti ha cambiato questa esperienza?
Posso dire che mi ha cambiato profondamente; mi ha reso più forte e mi ha fatto capire che tutte le difficoltà della vita si posso superare, basta volerlo senza demordere.
Il cammino ti rende sicuramente più forte e ti mette al riparo dalle paure; ora ho una fede rigenerata.
Un concetto fondamentale resterà vivo in me: ho capito veramente cosa significa l’umiltà. Alla fine del cammino si arriva solo se hai l’umiltà di fare un passo dietro l’altro in maniera costante, con fatica ma consapevolmente.
“Ultreia” dice con voce pronta l’amico pellegrino; “et suseia” risponde prontamente l’altro viandante che s’incontra sul cammino; significa “più in alto” e “oltre” c’è Santiago, il cammino e la vita.
“Attraverso l’amore di Cristo volgiamo al tempo stesso i nostri cuori verso i nostri fratelli che sono intimamente a noi legati e per i quali Egli dette se stesso in sacrificio”. La frase appena citata è stata estratta da un tema scolastico titolato “L’unione dei fedeli con Cristo”; l’autore non era un seminarista, non era un chierichetto e neanche un predicatore provetto o improvvisato. A proferire queste parole è stato Karl Marx in uno dei suoi primi scritti giovanili.
Il principale esponente del movimento comunista può essere considerato una figura certamente poliedrica e centrale nel XIX secolo: filosofo, economista, storico, sociologo e giornalista. Il teorico per eccellenza della concezione materialistica della storia e del socialismo scientifico.
La vita di Marx non è stata certamente facile né idilliaca. È curioso, per esempio, notare l’infinita serie di lutti che ha colpito la sua famiglia: il suicido di due figlie e di un genero; tre figli sono morti di malnutrizione. Anche la figlia Laura ha visto morire tre dei suoi figli. La stessa Laura e suo marito hanno tentato di uccidersi insieme. Un’altra figlia, Eleonora, ha tentato di fare lo stesso con suo marito. Solo nefaste coincidenze?
L’altra mano di Marx
Nelle pieghe della storia ufficiale ci sono alcuni aspetti poco approfonditi e per alcuni versi poco noti della vita e della personalità dell’ideatore massimo dell’ideologia comunista.
Una stranezza salta subito agli occhi proprio osservando uno dei più famosi ritratti di Marx; il filosofo è ripreso con la mano nascosta nella giacca; questo gesto sembra naturale e quasi casuale, ma non è propriamente così.
In realtà tale gesto è molto comune soprattutto osservando i ritratti di persone autorevoli e di un certo rango. Basti pensare, per esempio, ai ritratti di Napoleone. La "mano nascosta" è un simbolo ricorrente nei rituali del grado massonico "Royal Arch" e coloro che lo utilizzano se ne servono per comunicare la loro appartenenza agli altri iniziati e ai fratelli massoni.
In verità l’appartenenza alle file massoniche non è poi un fatto tanto eccezionale quando si parla di personalità del calibro di Karl Marx. Nel caso di specie, però, si tratta solo di questo?
L’altra faccia di Marx
A quanto pare no. Esiste uno studio organico e ben documentato che ha analizzato alcuni punti “oscuri” della vita del filosofo tedesco. Si tratta del libro, attualmente di difficile reperibilità, dal titolo “L'altra faccia di Carlo Marx” del pastore evangelico Richard Wurmbrand (1909-2001).
Wurmbrand ha messo in evidenza le probabili connessioni fra il marxismo e il satanismo, raccogliendo minuziosamente prove e indizi, ma soprattutto indagando in profondità nella vita privata di Marx.
È sorprendente notare l’evidente corrispondenza, quasi perfetta e naturale, degli elementi strutturali del mondo esoterico vicino al satanismo con i principali ideali che hanno mosso da sempre non solo Marx ma addirittura anche i più importanti fondatori dell'ideologia comunista; una traccia inesplorata e che, nel corso degli anni, è stata forse volutamente nascosta soprattutto dagli accoliti più vicini al filosofo tedesco.
Racconta Wurmbrand in un passo significato del suo libello: “Marx era un nemico dichiarato di tutti gli dèi, un uomo che aveva acquistato la sua spada dal principe delle tenebre, al prezzo della propria anima. Aveva dichiarato che il proprio scopo era l'attirare tutta l'umanità nell'abisso, e seguirla ridendo. Sua figlia Eleanor dice che, quando erano bambine, Marx aveva raccontato molte storie a lei e alle sue sorelle. Quella che le piaceva di più parlava di un certo Hans Röckle. Il racconto di quella storia durava mesi e mesi, perché era una storia lunga, lunga, e non finiva mai: Hans Röckle era una strega che aveva un negozio con giocattoli e molti debiti. Benché fosse una strega, era sempre in ristrettezze finanziarie. Perciò doveva vendere, contrariamente alla propria volontà, tutte le sue cose belle, l'una dopo l'altra, al diavolo; alcune di queste avventure erano orribili e ci facevano rizzare i capelli”. Un racconto non proprio adatto per una bambina.
L’altra giovinezza di Marx
Il nome completo di Marx era Moses Kiessel Mordechai Levi; sin dai primi anni della sua adolescenza si è professato cristiano, sebbene la sua famiglia avesse origini ebree. Infatti, suo padre Hirshel ha-Levi Mordechai, era discendente di una famiglia di rabbini; di tale estrazione ha conservato un chiaro retaggio culturale, sviluppando alcuni tratti intellettuali tipici degli studi talmudisti, ossia propri del testo sacro complementare più importante dell’Ebraismo. È singolare notare che Mardocheo è stato il figlio di Iair della tribù di Beniamino, una delle due tribù che costituirono il regno di Giuda prima della sua distruzione da parte dei babilonesi. L'origine del nome Mardocheo è incerta. Sembra che in aramaico significhi "servitore di Marduk", ossia del dio creatore della mitologia babilonese. Mardocheo è stato anche il primo personaggio della Bibbia al quale è stato riconosciuto il nome di "Yehoudi" che si traduce con il termine “giudeo”.
Poco dopo il diploma, nella vita di Marx è accaduto un mutamento radicale molto probabilmente dovuto a una grave malattia che l'avrebbe colpito, portandolo sull'orlo della morte. Come spesso accade dopo una grave malattia c’è un avvicinamento al divino; per Marx, invece, stranamente è successo esattamente il contrario. Da quel momento è diventato profondamente e appassionatamente anti-religioso. Proprio in quell'oscuro periodo della sua vita ha incominciato a scrivere alcuni poemi di chiara impronta esoterica e a tratti molto vicini alle tematiche del satanismo. Tra questi spicca, senza dubbio, l’opera “Oulanem”.
L’altro lato artistico
A proposito di quest’opera ha spiegato sempre Wurmrand “è necessario cogliere la rivelazione che lo stesso Marx fa nel poema - Il giocatore - segno chiaro della sua affiliazione a una setta satanico-luciferina: «Sorgono i vapori infernali e mi riempiono il cervello sin che impazzisco e mi si cambia il cuore. Vedi tu questa spada? Me l'ha venduta il principe delle tenebre. Per me batte l'ore e dà i segni. Sempre più audacemente suono la danza della morte». Il riferimento è alla spada incantata, strumento rituale che viene offerto all'adepto nel momento del giuramento di fedeltà a Satana, fatto con il suo sangue. La spada diviene immagine speculare della perdita dell'anima. Della dannazione eterna. «Ho però nelle mie giovani braccia – scrive Marx in un altro emblematico passaggio dell'opera - di che stringervi e schiacciarvi con la forza d'una tempesta, mentre per entrambi l'abisso si disserra nel buio. Sprofonderai, ed io ti seguirò ridendo, Sussurrandoti all'orecchio, Discendi,Vieni con me, amico!» (Karl Marx, Oulanem, Atto 1, scena 2, pag. 63).
Oulanem è in fondo un'ode alla morte e alla perdizione eterna. Un inno all'anticristo. È importante notare che il termine “Oulanem” sia l'inversione e il camuffamento del nome biblico di Gesù “Emmauele” che in ebraico significa “Dio con noi”. Per i satanisti invertire i nomi sacri o le lettere degli stessi ha una forte valenza simbolica di negazione del principio semantico sacro. Simili inversioni di nomi, in particolare, sono caratteristici della magia nera. Secondo l'autore, inoltre, Oulanem è una composizione particolare: tutti i personaggi sono consapevoli della loro corruzione, non solo, ma la ostentano e la celebrano con convinzione.
L’altro Marx esoterico
Quando Marx ha scritto l’opera “Oulanem” era ancora lontano dall’elaborazione delle teorie del socialismo. Addirittura le contrastava. Negli anni successivi, invece, l’avvicinamento alle tematiche esoteriche si è coniugato e fuso in maniera indistinta con la maturazione degli ideali politici.
Il Manifesto Comunista, infatti, scritto nel 1848 altro non è stato che la copia rivista e corretta del celeberrimo piano degli "Illuminati di Baviera" in funzione anticattolica; i punti più importanti del programma sono stati concepiti durante il periodo di affiliazione e militanza dello stesso Marx all'interno della “Lega degli Uomini Giusti”, di diretta emanazione proprio dall’Ordine degli Illuminati di Baviera.
Marx, infatti, sarebbe stato iniziato nella “Loggia Apollo” di Colonia proprio nel periodo della stesura del Manifesto Comunista, ma avrebbe militato anche nella "Lega degli Uomini Giusti", precedentemente denominata "dei Proscritti" e poi "dei Comunisti".
Gli illuminati inglesi avrebbero affidato a Marx ed Engels il compito di rielaborare i principi fondanti della setta in una forma nuova e pseudo-scientifica, mentre i finanziamenti necessari per la pubblicazione del Manifesto sarebbero stati erogati da Clinton Roosevelt e Horace Greely, entrambi membri della “Loggia Columbia” fondata a New York dagli stessi Illuminati di Baviera.
Per Marx, affinché le masse potessero conseguire la felicità, occorreva qualcosa di più che la semplice distruzione del capitalismo: occorreva “l'abolizione della religione, (l'oppio dei popoli) intesa come illusoria felicità dell'uomo”. È proprio su questi concetti di sovrapposizione degli elementi di antagonismo al capitalismo e affermazione dell’ateismo che si insinua l’altra faccia esoterica del pensiero marxista.
Una conferma diretta di questo è arrivata analizzando un altro poema: “Così ho perduto il cielo, Lo so ben io. La mia anima, un tempo fedele a Dio, È destinata all’inferno.” (Marx, La fanciulla pallida). Sembra chiaro l’intento di voler seguire lo stesso obiettivo del diavolo: consegnare alla dannazione l’intera razza umana.
Ancora più inquietante sembrerebbe un’epistola della moglie: “La tua ultima lettera pastorale, o gran sacerdote e vescovo di anime, ha di nuovo dato un tranquillo riposo alla tua povera pecorella”. La lettera è datata 31 marzo 1854. Sua moglie parlava di lui come di un gran sacerdote e vescovo. Di quale religione? Forse il riferimento era all’appartenenza a una setta? Eppure in questo periodo della sua vita aveva già abbracciato in maniera convinta gli ideali comunisti e l’ateismo.
La possibile connessione con il satanismo sembra essere confermata indirettamente anche da Mikhail Bakùnin, amico dello stesso Marx ed esponente anarchico della Prima Internazionale: “Il maligno rappresenta la ribellione satanica contro l'autorità divina, ribellione nella quale vediamo il germe fecondo di tutte le emancipazioni umane, la Rivoluzione. Satana è l'eterno ribelle, il primo libero pensatore ed emancipatore dei mondi. Egli fa sì che l'uomo si vergogni della sua bestiale ignoranza e obbedienza; lo emancipa, imprime sulla sua fronte il suggello della libertà e dell'umanità, spronandolo a disobbedire e a mangiare il frutto della conoscenza”. Egli scriveva ancora: “In questa rivoluzione dovremo risvegliare il Diavolo nelle persone, dovremo attizzare in loro le più basse passioni. La nostra missione è distruggere, non edificare. La passione per la distruzione è una passione creativa”.
C’è poi, infine, un altro elemento non trascurabile: la particolare barba di Marx e la sua lunga chioma; caratteristiche peculiari tipiche dei discepoli di Joanna Southcott, una sacerdotessa dedita al satanismo che si considerava in contatto diretto col demone Shiloh.
L’altra storia ancora da scrivere
Da questi elementi emerge certamente un quadro complessivo poco noto del comunismo delle origini e dei suoi protagonisti: l’odore acre del fumo di satana resta in sospensione sotto la patina evanescente di un quadro composito che richiama le lotte degli operari e dei più deboli contro lo sfruttamento del capitale; una facciata dietro alla quale molto probabilmente si nascondeva ben altro. Una contraddizione apparente e poco dibattuta se si pensa che parecchi scritti di Marx sono attualmente ancora gelosamente custoditi presso l’Istituto Lenin di Mosca. Tali manoscritti potrebbero rivelarsi fondamentali per avere una comprensione completa dei veri scopi del movimento comunista europeo.
Risulta quanto meno singolare dover registrare la simpatia di Marx per ambienti e temi vicini al satanismo in virtù della sua forte avversione religiosa e alla propria vicinanza all’ateismo. Appare ancora più singolare constatare che nel suo studio privato campeggiava un busto mitologico di Zeus che nella tradizione greca rappresentava un crudele dio che si trasformava in animale e teneva prigioniera l’intera Europa. Un preoccupante vaticinio se si considera che la figura di Zeus, nota per la sua ferocia, è anche l’unico emblema che si ritrova nell‘atrio principale della sede delle Nazioni Uniti di New York.
Forse, per iniziare una ricerca approfondita in tale direzione, bisognerebbe partire dalla fine e constatare che Marx è stato sepolto nel cimitero londinese di Highgate il quale è, notoriamente, il principale centro del satanismo britannico.
”Discendi nel cratere dello Jokull di Sneffels che l'ombra dello Scartaris viene a lambire prima delle calende di luglio, viaggiatore ardito, e perverrai al centro della Terra”. Questo il messaggio che appariva nelle rune tradotte trovate nel manoscritto nel secondo capitolo del famoso libro di Jules Verne dal titolo “Viaggio al centro della terra”.
Un libro affascinante che per anni è stato tra le letture preferite di molti adolescenti. La curiosità dell’uomo per l’esplorazione delle viscere della terra si è sviluppata sin dagli albori della civiltà, sospesa a metà strada tra la leggenda e il mito.
Le origini
Il concetto che il sottosuolo potesse ospitare e proteggere la vita è collegato in maniera ancestrale con la comparsa dell’uomo sulla terra. In un tempo lontanissimo, infatti, gli esseri umani trovarono riparo nelle caverne; quella che inizialmente era una necessità nel corso del tempo ha acquisito una valenza prima antropologica e poi concettuale e religiosa. Il primordiale senso religioso, infatti, con una matrice comune a molte popolazioni, è stato senza dubbio legato alla dea terra, proprio perché questa assumeva il ruolo primordiale di divinità ed era considerata come una madre: con i suoi frutti assicurava il nutrimento e con i suoi anfratti garantiva la protezione proprio come il ventre materno.
Numerose sono le leggende e i miri che riguardano il sottosuolo della Terra: da Orfeo che andava a cercare l’anima di Euridice sotto la crosta terrestre, passando per la figura di Ulisse che officinava un sacrificio affinché le anime degli antichi risalissero in superficie a consigliarlo, fino ad arrivare al mito di Plutone che regnava nel fondo della Terra sugli spiriti dei morti.
Un dato certo, quindi, è la stretta connessione concettuale del sottosuolo della Terra con le forme di credenze religiose più o meno strutturate.
Con l’affermarsi dell’Ebraismo prima e poi del Cristianesimo la concezione divina della Terra assume un’eccezione con sfumature negative; l’affermazione del monoteismo, di fatto, metteva al bando le divinità legate al culto della Terra madre. La stessa figura di Lucifero, scagliato sulla Terra e relegato agli inferi, ribaltava una visione fino a quel momento abbastanza consolidata: il centro della Terra non era più un posto ospitale, ma diventava il regno del male, un posto oscuro; non a caso e anche per questo motivo Lucifero è considerato, tra le altre cose, il “portatore di luce”; considerato tale, tra l’altro, proprio perché dal buio dell’abisso terrestre cerca di portare la luce all’esterno. Con questi nuovi elementi l’impianto mitologico si arricchiva di un nuovo aspetto: Lucifero diventava il portatore di conoscenze segrete da tramandare a gruppi iniziatici in maniera sotterranea. Ecco da dove nasce, tra l’altro, la credenza più o meno reale della presenza di gruppi organizzati che vivono in quella che è riconosciuta come la “Terra cava”.
Di questa impostazione risente anche l’intera struttura dell’'inferno dantesco, immaginato come una serie di anelli, sempre più stretti, che si succedono in sequenza e formano un tronco di cono rovesciato; l'estremità più stretta si trova in corrispondenza del centro della terra ed è interamente occupata proprio da Lucifero.
I primi riferimenti scientifici
A partire, però, dal XVII secolo si svilupparono varie teorie, con il supporto anche scientifico, in base alle quali la Terra avrebbe una struttura cava al suo interno. In particolare Edmund Halley nell'opera “Philosophical Transactions of Royal Society of London” nel 1692 propose l'idea che la terra fosse formata da un guscio esterno spesso 800 km, con due altri gusci interni concentrici e un nocciolo interno. Ogni guscio avrebbe i propri poli magnetici e ruoterebbe a velocità differente. Suggerì, inoltre, anche che queste sfere interne potessero essere abitate.
Teoria questa confermata più tardi anche da John Cleves Symmes che avanzò l'ipotesi che la Terra fosse formata da un guscio cavo di 1.300 km di spessore, con due cavità di 2.300 km di diametro su entrambi i poli geografici. Oltre alla crosta esterna ci sarebbero quattro gusci interni, anch'essi con aperture ai poli. Symmes fu il primo addirittura a proporre al Congresso degli Stati Uniti una spedizione alla ricerca del foro che secondo lui sarebbe collocato al Polo Nord.
I riferimenti romanzati
Già nel 1788 con la pubblicazione del romanzo “Icosaméron” Giacomo Casanova raccontava, in una storia di quasi due mila pagine, le vicende di un fratello e una sorella che cadevano all'interno della terra, scoprendo così l'utopia sotterranea dei Mégamicri, una razza di nani multicolori ed ermafroditi, molto simili agli gnomi.
Anche Edgar Allan Poe usò l'idea della Terra cava per il suo romanzo “Storia di Arthur Gordon Pym” del 1838 e ne fece riferimento anche in “Manoscritto trovato in una bottiglia” e ne “L'incomparabile avventura di un certo Hans Pfaall”.
Il vero successo della teoria della Terra cava, però, si ebbe nel 1864 con il romanzo “Viaggio al centro della terra“ dello scrittore francese Jules Verne; questo è considerato il romanzo precursore del filone fantascientifico. Nel libro il cratere d’entrata era segnalato dall’ombra dello Snæffels il 22 giugno, il giorno solstizio d'estate. Come si può notare non è certamente un caso che l’antesignano della letteratura fantascientifica collochi la possibilità di accesso simbolicamente proprio in questo giorno particolare, ponendo così l’attenzione sul rapporto luce/ombra e sulla dualità superficie/profondità.
Nel 1871 sir Edward Bulwer-Lytton, scrittore politico ed esoterista, pubblicò un romanzo dal titolo “Vril, The Power of the Coming Race“, in cui sosteneva che all'interno della Terra si trovasse una razza di superuomini sopravvissuti a cataclismi mitologici. Il “Vril” era un'ipotetica forma di energia, sottoforma di fluido, che permetterebbe di avere poteri magici; il termine "Vril-ya" starebbe a indicare una razza semidivina in grado di curare qualsiasi malattia, animare un oggetto oppure distruggere, utilizzando speciali bastoni metallici di forma cilindrica dai quali confluiva questa particolare energia.
Le pubblicazioni sull’argomento continuarono per tutto il XIX secolo; degno di nota in questo periodo, per esempio, è il romanzo di John Uri Lloyd, farmacologo ed erborista, dal titolo “Etidorhpa”, dove si descriveva un viaggio immaginario fino al centro della terra a partire dalle caverne del Kentucky.
Nel corso della seconda metà del XX secolo, quando la teoria continuava a mantenere una discreta notorietà, furono pubblicati numerosi testi a carattere pseudoscientifico o fantastico, sull'onda dell'ascesa della letteratura del mistero.
La terra cava
Questo fiorire letterario dimostra il grande interesse che da sempre si è sviluppato per l’argomento. La teoria nel corso dei secoli si è sedimentata intorno a una credenza fondamentale: la Terra al suo interno sarebbe cava, cioè vuota e sospesa nell’incavo; al suo interno, inoltre, ci sarebbe un sole, fonte di vita e di energia.
Diversi popoli, con culture differenti, presentano una matrice comune di miti collegati alla Terra cava. In India, per esempio, vi era un’antica credenza, ancora viva nel presente, che narra di una stirpe di esseri rettiliani (uomini serpente) i quali vivrebbero nelle città sotterranee di Patala e Bhogavati. Secondo la leggenda tale popolo sarebbe in guerra con il regno di Agharti. In Tibet, invece, un grande santuario mistico denominato “Patala” si troverebbe in cima a un antico sistema di caverne e tunnel che si estenderebbe lungo tutto il continente asiatico e forse anche oltre. Le popolazioni del Sud America, infine, la individuano con il famoso continente dorato dell’Eldorado. Insomma, in tutto il mondo la Terra cava ha un sistema di credenze comuni che di volta in volta presentano varie denominazioni: il leggendario paradiso di Shambalà, la Terra delle Acque Candide, la Terra degli Spiriti Raggianti, la Terra del Fuoco Vivente, la Terra degli Dei Viventi. Gli indù la chiamavano Aryavartha, ossia la terra d’origine dei Veda; i Cinesi, invece, parlavano di Hsi Tien, il Paradiso Occidentale; la setta cristiana russa dei vecchi credenti la chiamava Belovodye e i Kirghizi la nominavano, invece, Janaidar.
Secondo queste leggende, comuni a molti popoli, originariamente c’erano due grandi continenti, Atlantide e Mu che, per misteriose ragioni, furono distrutte da un grande cataclisma. I superstiti si sarebbero divisi in diversi gruppi. Parte di questi avrebbero abitato le terre dell’Asia, dell’Europa e delle Americhe; gli altri, invece, gli “eletti" sarebbero scesi all’interno del pianeta e avrebbero dato vita a una civiltà nascosta e divisa in due grandi continenti: Eldorado e Agarthi. Il primo accessibile dal Polo Sud e il secondo dal Polo Nord.
Il mito di Agarthi
Agarthi, detto anche Agartha, significa ”inaccessibile" e fu descritta per la prima volta nelle opere dello scrittore Willis George Emerson. Questo la individuava come una civiltà nascosta all’interno dell’Asia centrale, separata da una cintura di montagne e suddivisa in otto parti e in settantasei regni. Kalapa sarebbe la capitale dove ha sede il palazzo del sacerdote-re.
Una delle testimonianze più incredibili su questo regno lo si può leggere nel libro del 1908 dal titolo “Il Dio fumoso” di Willis George Emerson che raccontava l’autobiografia di un marinaio norvegese chiamato Olaf Jansen; questo avrebbe navigato all'interno della Terra attraverso un'apertura presso il Polo Nord. Per due anni avrebbe vissuto con gli abitanti di questo regno illuminato da un "sole centrale fumoso".
Il mito di Agharti è stato rivalutato anche da Madame Blavatsky, la veggente fondatrice della Società Teosofica Internazionale; l’esoterista sosteneva di essere in contatto telepatico con gli antichi “Maestri della Fratellanza Bianca”, ovvero con i sopravvissuti di una razza eletta vissuta tra il Tibet e il Nepal i quali si sarebbero rifugiati nelle viscere della Terra in seguito a una spaventosa catastrofe. Dalle dottrine della Blavatsky prese ispirazione, tra gli altri, anche la Società Thule, ossia l’emanazione esoterica del partito nazista di Hitler. Sembra proprio, infatti, che il Fuhrer fosse così convinto della veridicità delle leggende in merito alla Terra cava al punto da finanziare una spedizione di ricerca in Antartide, la quale si concluse, perlomeno ufficialmente, con un insuccesso. Della missione parlò addirittura l'ammiraglio Donitz durante il processo di Norimberga.
Esisterebbero vari luoghi riconducibili ad Agharti: Atlantide, il Regno di Prete Gianni, il castello di Camelot, l’isola di Avalon, il Montsalvat dei miti di Re Artù, l’omerica isola di Ogigia, la mitica isola di Thule, il monte Meru, il monte Olimpo e il monte Qafal. Alcuni sono dei luoghi reali, altri solo immaginari. In particolare, inoltre, esisterebbero diversi ingressi al regno di Agharti:
Kentucky Mommoth Cave, USA
Mount Shasta, California, USA
Manaus, Brasile
Mato Grosso, Brasile
Cascate di Iguazù, sul confine tra Brasile e Argentina
Monte Epomeo, in Italia nell’isola di Ischia.
Montagne himalayane, Tibet. L'ingresso alla città sotterranea di Shonshe sarebbe custodito dai monaci indù.
Mongolia. La città sotterranea di Shingwa si troverebbe sotto il confine tra Mongolia e Cina
Rama, India
Piramide di Giza, Egitto
Miniere di Re Salomone
Polo Nord e Polo Sud
Il re del mondo
Nel 1924 fu pubblicato a Parigi un singolare libro di Ferdinand Ossendowski dal titolo “Bestie, uomini e dèi”. Vi si raccontava un avventuroso viaggio nell’Asia centrale, nel corso del quale l’autore affermava di essere venuto in contatto con un centro iniziatico misterioso situato nel sottosuolo e le cui ramificazioni si estenderebbero ovunque. Il capo supremo di questo centro era conosciuto con l’appellativo di “Re del Mondo”. Questo studio fu riprese poi nel 1927 dall’esoterista francese Renè Guènon nel suo libro dal titolo proprio “Il Re del Mondo”.
Il centro del regno sotterraneo sorgerebbe sul principale incrocio delle correnti terrestri e sarebbe esso stesso a generare questi fiumi di energia che percorrono tutto il pianeta e si diffondono in superficie. Tale energia esisterebbe simultaneamente sia sul piano fisico sia su quello spirituale e solo pochissimi avrebbero la possibilità di beneficiarne. L’organizzazione della città sarebbe gestita da tre figure: Brahmatma, il Mahatma (colui che conosce il futuro) e il Mahanga (colui che procura le cause affinché gli avvenimenti si verifichino). Questa triade comanderebbe il clero militarizzato, ossia i templari confederati dell’Agharti; il livello più elevato sarebbe il cosiddetto “consiglio circolare” formato da dodici iniziati. Solo di rado il sovrano esce dal suo regno; comparirà davanti a tutti soltanto al momento opportuno, conducendo una battaglia degli uomini giusti contro i cattivi.
Ad Agharti si dice che sia nata la religione unica, primordiale e perfetta della cosiddetta “Età dell’Oro”, in grado per mezzo di pratiche mistiche di porre l’uomo in totale comunione con Dio.
Il Re del Mondo, detto anche Manu, non sarebbe soltanto un capo religioso, ma reggerebbe anche i destini del pianeta. Una figura enigmatica che ha attirato addirittura l’attenzione del noto cantautore Franco Battiato che ha riversato il suo interesse nei confronti delle tematiche già trattate da Guènon nella canzone intitolata proprio “Il re del mondo” contenuta nel disco “L'era del cinghiale bianco”; sibillini suonano i versi della sua canzone: “Un giorno in cielo, fuochi di Bengala... Ia Pace ritornò ma il Re del Mondo, ci tiene prigioniero il Cuore”.